di Johann Merrich*
Un giorno, nel 1944, un ingegnere agricolo egiziano si trovò ad assistere a una cerimonia di guarigione in una piccola località poco distante dal Cairo. Halim El-Dabh aveva 24 anni e aveva preso in prestito dagli studi della radio nazionale egiziana un registratore a filo. Aveva incontrato quella tecnologia per l’incisione e la riproduzione del suono più di un decennio prima, quando il fratello maggiore lo aveva portato alla Prima Conferenza Etnomusicologica Internazionale del Cairo [1]. Fu in tale circostanza che, a soli undici anni, Halim El-Dabh ebbe l’occasione di ascoltare i suoni che Béla Bartók e Paul Hindemith avevano registrato durante il loro viaggio alla volta dell’Egitto [2].
La cerimonia Zaar, il rito a cui stava assistendo El-Dabh nel 1944, era un esorcismo della durata di intere notti – da 3 a 7, in base alla gravità della situazione – compiuto per scacciare gli spiriti maligni causa di malattia; per il suo compimento, prevedeva l’impiego di strumenti a corde, tamburi, canti e danze estatiche [3]. Affascinato da quel mondo che preservava ancora un sapore antico e incontaminato, El-Dabh aveva deciso di registrare l’ambiente sonoro della cerimonia per cercare di scoprire quale altro suono interno potesse nascondersi nel rituale. Raccolto il materiale sonoro, El-Dabh si recò negli studi della radio cittadina e iniziò qualche esperimento con la poca attrezzatura disponibile: fece suonare la registrazione in una camera di riverbero dalle pareti mobili modificando la quantità di effetto e incidendo ancora il risultato, cercando di concentrare la sua attenzione sulla decostruzione del suono delle voci femminili del rituale. Cercò di eliminare le consonanti che definivano le parole cantate e gli attacchi iniziali dei suoni percussivi, nell’intenzione di mantenere la qualità risonante delle voci e il suono del decadimento dei tamburi. Lontana dai modi del documentario, la registrazione di El-Dabh non si limitò a preservare gli eventi del “mondo reale”: utilizzò pionieristicamente il supporto registrato per scopi artistici. Trasferito su nastro magnetico, il brano fu presentato in una galleria d’arte del Cairo con il titolo The Expression of Zaar (oggi noto anche come Wire Recorder Piece) [4].
Le pratiche sperimentali di Halim El-Dabh non si esaurirono nel solo Expression of Zaar: negli Stati Uniti, il compositore sarà attivo al Columbia Princeton Electronic Music Center dove lavorerà, grazie all’invito dei suoi fondatori, tra 1959 e 1960 [6]; qui inciderà Meditation on White Noise (1959) impiegando i suoni della città di New York, Element, Being and Primeval (1959) per mezzi elettronici su nastro magnetico e Leiyla and the Poet, un’altra meditazione sull’estetica del rumore concepita attraverso la manipolazione del nastro [7].
Nella visione sonora di El-Dabh, esiste un immenso rumore generato dalle interazioni tra le persone, dal mondo, dallo spazio e dall’universo stesso; simile al suono di un aeroplano, di un aspirapolvere o di un grande mezzo su ruote, questo rumore universale – che permea anche le frequenze a noi non udibili – è la sorgente da cui possono essere estratti tutti gli altri suoni. Il rumore è dunque da intendersi come un materiale scultoreo: non si costruisce ma si estrae, lo si libera da una massa infinita e superiore [8].
Quello del rumore era un tema che El-Dabh portava con sé sin dai tempi degli studi in ingegneria agricola, quando era solito trascorrere giorni interi nei territori rurali attorno al Cairo, immerso in un folklore che contaminava assieme diverse tradizioni del continente africano:
Lavoravo per una compagnia agricola: avevo il compito di migliorare i terreni e aiutare lo sviluppo del paese. Nel frattempo, imparavo molto sulla musica. Ogni volta che andavo da qualche parte, la gente del luogo invitava i musicisti locali a incontrarmi. Mi sono divertito moltissimo a fare il mio lavoro e a imparare la musica allo stesso tempo. Attraverso l’agricoltura ho imparato a creare rumore. Ho creato rumore per scoraggiare i piccoli coleotteri dall’attaccare piante, come il mais e il grano. Avevo la sensazione che il rumore li avrebbe dissuasi e che sarebbero rimasti lontani. (…) Prendevo pezzi di rottami metallici e li appendevo a un palo. Quando veniva il vento vibravano, colpivano il palo e facevano rumore [9]
Nonostante il suo pionieristico contributo, il nome di Halim El-Dabh non compare di frequente nei compendi riassuntivi o nelle formule divulgative della storia della sperimentazione musicale, scavalcato il più delle volte da altri autori europei che, già dagli anni Venti, avevano iniziato a loro modo a manipolare il suono inciso variando la velocità di rotazione dei dischi fonografici. Quando concepì The Expression of Zaar, El-Dabh scelse di non dargli troppa importanza: il lavoro fu esposto come proto-installazione in una galleria d’arte del Cairo e poi, pian piano, si allontanò dalle pagine della storia. Possiamo quindi comprendere perché, in passato, non si parlò mai dell’esperienza avanguardista del compositore egiziano, riscoperto solo in anni recenti; la scelta contemporanea – e purtroppo ricorrente – di omettere il nome di Halim El-Dabh dalla macro narrazione storica pare piuttosto razionale: The Expression of Zaar non ebbe di certo la risonanza che ebbero invece certe ricerche parigine… Tuttavia, nell’ottica di una storia che dovrebbe tendere a una rappresentazione universale, si dovrà necessariamente prendere la nuova abitudine di raccontare anche le geografie più trascurate per reintegrare luoghi e attori elisi nella nostra memoria.
NOTE
[1] H. E-Dabh, “Biography”, http://www.halimeldabh.com/bio.html
[2] H. E-Dabh, T. McCutchon, “Unlimited Americana: a Conversation with Halim El-Dabh”, June 1, https://www.musicandliterature.org/features/2017/6/1/unlimited-americana-a-conversation-with-halim-el-dabh
[4] K. Welsh-Asante, African Dance, Chelsea House Publishers, New York 2004, pp. 88-89.
[5] D. Fosler-Lussier, “Sound Recording and the Mediation of Music” in Music on the Move, University of Michigan Press 2020, pp. 107-108. https://www.jstor.org/stable/10.3998/mpub 9853855.12
[6] D. Collier, “Electronic Sound As Trance and Resonance” In Media Primitivism: Technological Art in Africa, 61–92. Duke University Press, 2020. https://doi.org/10.2307/j.ctv160bv0d.6.
[7] D. A Seachrist, The Musical World of Halim El-Dabh, Vol. 1, The Kent State University Press, Kent and London 2003, pp. 61-62.
[8] Ibidem.
[9] “I worked for an agricultural company that was working to improve lands and aid development, and in the process I learned a lot about music. Every time I went somewhere in the country, the people invited the local musicians to meet me, so I had big crowds. I had a wonderful time doing my work and learning music at the same time. Through agriculture, I learned how to create noise. I created noise to discourage the teeny beetles from attacking plants, like the corn and wheat. I had the feeling that noise would make them discouraged, and they would stay away from the plants. (…) I would take pieces of scrap metal, hang them from a pole, and they would have, like, wings to them. When the wind came they would vibrate and hit the pole and create noise”.
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img © Eeviac
* Organizzatrice di suoni, Johann Merrich si occupa di ricerca e sperimentazione elettronica. I suoi progetti in solo ed ensemble – presentati a Santarcangelo Festival (2018) e alla Biennale D’Arte di Venezia (Padiglione Francia, 2017) – sono stati accolti come opening da artisti quali Zu, Teho Teardo, Mouse on Mars, Roedelius ed Evan Parker. Direttore artistico della netlabel electronicgirls, dal 2018 fa parte assieme a eeviac de L’Impero della Luce, duo dedicato alle sonorità dei campi elettromagnetici. Nel 2019 ha pubblicato per Arcana Edizioni il libro “Breve storia della musica elettronica e delle sue protagoniste”. A partire dal mese di maggio 2019, propone per musicaelettronica.it una nuova visione della storia della musica elettronica.
http://johannmerrichmusic.wordpress.com/ | https://soundcloud.com/johann-merrich
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