In occasione della performance del 14 febbraio 2018 per TRK. SOUND CLUB, abbiamo fatto qualche domanda a Tiziana Bertoncini e Thomas Lehn sul loro background musicale, sul loro progetto di duo e sul loro modo improvvisare con violino e sintetizzatore analogico.
Potete parlarci della vostra formazione musicale?
Tiziana Bertoncini: Ho una formazione classica, ho cominciato presto a suonare il violino e ho studiato a Pisa. In seguito, ho avuto una crisi adolescenziale e ho smesso. Finito il liceo, ho frequentato l’Accademia di Belle Arti e, subito dal primo anno, la mia passione per il violino si è risvegliata. Così ho ripreso gli studi del violino. A quel punto, però, non mi stava più tanto bene lo studio convenzionale del Conservatorio, lo trovavo davvero soffocante dal punto di vista creativo, non c’era spazio (o almeno, dove ho studiato io). E così è cominciato questo mio interesse verso l’improvvisazione, proprio grazie a Eugenio Sanna e Manrico Fiorentini, che ho conosciuto a Pisa e che mi hanno proposto di improvvisare, e io non sapevo assolutamente che cosa volesse dire a quel tempo. Da lì ho cominciato a fare anche musica improvvisata e sono rimasta sempre abbastanza fedele a questa pratica, nonostante abbia anche proseguito gli studi accademici del violino, li abbia terminati e abbia comunque proseguito a studiare musica classica e contemporanea “scritta”, che restano ancora delle parti molto importanti del mio lavoro. Devo dire che gli studi in pittura all’Accademia di Belle Arti hanno aggiunto un’altra prospettiva, che è anche “visiva”, rispetto al mio approccio con la musica. Per me l’aspetto visivo è importante, quindi cerco di fare progetti in cui questa componente è presente.
Thomas Lehn: Quando ero giovane ho preso delle normali lezioni di piano da un’insegnante privata e non ho fatto molte esperienze al di fuori del mondo del pianoforte. Non avevo possibilità di fare musica da camera a quel tempo: c’era la mia insegnante di pianoforte che veniva a casa. Ma tutto è cambiato quando ho iniziato a suonare in una band, che all’inizio faceva cover di musica dance tedesca. Poi abbiamo iniziato a suonare la nostra musica e facevamo pop, rock fino a jazz-rock, krautrock, e ci siamo interessati ai Pink Floyd e gruppi del genere. In sostanza, ho conosciuto presto il mondo della musica classica e l’attività di comporre la propria musica. Ho continuato a farlo anche mentre studiavo, e i miei primi studi sono stati di ingegneria del suono. Poi ho realizzato – dopo un anno – che ero negato e volevo dedicarmi solo alla creazione musicale, quindi ho lasciato tutto e ho iniziato un doppio percorso di studi di musica classica e piano jazz. Durante gli anni Ottanta suonavo sia musica da camera (Brahms, Beethoven) sia musica jazz. Più avanti ho anche suonato cool jazz, con un approccio libero all’improvvisazione jazz e, negli anni Novanta, ho iniziato a interessarmi alla musica contemporanea. All’inizio degli anni Novanta avevo il mio ensemble di musica da camera, e con gli altri musicisti abbiamo iniziato a commissionare lavori a giovani compositori che al tempo vivevano a Colonia. E così abbiamo fatto un po’ prime esecuzioni. La musica contemporanea è diventata presto il repertorio su cui volevo lavorare, ed è stato un processo anche piuttosto naturale. È successo che, verso la fine degli anni Novanta, ho iniziato a suonare il sintetizzatore: tutto è partito perché, per un particolare concerto in una galleria, non c’era la possibilità di avere un piano. Non volevamo perdere l’occasione di suonare in quel contesto – si trattava di una performance davvero ben pagata all’interno di una mostra – quindi mi sono ricordato che i miei avevano a casa questo mini sintetizzatore Moog. L’ho preso e portato con me e l’ho usato per sostituire il pianoforte per un trio con clarinetto e contrabbasso. E lì ho pensato: “Wow! Funziona davvero bene!”. Perché quello che cercavo di fare con il pianoforte era di rendere il suono astratto, e con il sintetizzatore questi suoni astratti si potevano fare… quello strumento faceva esattamente quello che stavo cercando. E in quel caso aiutò anche il fatto che il suono del sintetizzatore si adattasse perfettamente all’ambiente acustico della galleria. Questo è stato il mio “nuovo inizio” con il sintetizzatore (che già avevo suonato negli anni Settanta, ma facendo musica completamente diversa, tipo Chick Corea, musica fusion ecc.). Da quel momento è diventato il mio strumento per fare musica improvvisata. E ho preso un altro sintetizzatore, l’EMS che sentirete stasera e che uso dal 1994. Questo strumento mi ha veramente aperto le porte, anche in termini logistici perché, al contrario del mini Moog, è trasportabile. In pratica, sia la musica improvvisata sia quella composta hanno avuto un ruolo importantissimo per la mia carriera da performer e penso che il loro incrocio sia stato ricco di stimoli. La comprensione della composizione ha avuto una forte influenza su di me nel fare improvvisazione (il senso di una forma, un’attenzione per la forma, una direzione avanti e indietro… questo tipo di elementi). Per me è molto importante essere impegnato su entrambi i fronti. Approfondisce anche la relazione con lo strumento elettronico: è necessario trasformare il dispositivo elettronico in un vero strumento, e questa è la cosa davvero interessante. Tutto lo sforzo necessario per suonare uno strumento acustico, il tempo, ecc., non ha niente a che vedere con lo strumento elettronico; ad esempio, il computer ha un accesso enormemente più facile, perché i software fanno già molto. Io non uso software, per essere chiari, ma per me è un’idea stimolante pensare a cosa potrei fare se suonassi uno strumento dotato di un software. Tuttavia, ho un’estetica piuttosto old-fashioned… ormai ho un rapporto troppo lungo con questi strumenti.
Suonate insieme dal 2002: com’è cominciata la vostra collaborazione? E come si è evoluta dagli esordi?
TB: Abbiamo iniziato a suonare insieme in modo molto semplice e naturale. Penso che l’inizio, però, non sia stato molto facile per me. Lui era già molto conosciuto, mentre io no: sembrava quindi che io suonassi con lui solo perché ero la sua fidanzata… Per un po’ di anni non abbiamo suonato molto.
TL: Sì, all’inizio abbiamo fatto un paio di concerti e un tour, poi abbiamo fatto una lunga pausa.
TB: Esatto, volevo lavorare su me stessa, sui miei progetti.
TL: Cosa che hai fatto, il tuo pezzo per tape ad esempio… E poi qualcosa è cambiato quando abbiamo iniziato a suonare con l’ensemble]h[iatus.
TB: Ma forse anche prima… eravamo coinvolti in qualche progetto dove ci hanno invitati entrambi. Quindi abbiamo avuto la possibilità di lavorare insieme per lunghi periodi (tre settimane dove dovevamo provare ogni giorno). E questo è stato molto buono. Poi è iniziata l’esperienza con l’ensemble]h[iatus. Dal mio punto di vista, quello che è cambiato è stato il mio modo di improvvisare con il violino – e non solo con Thomas. C’è stata una fase in cui ho cercato di evitare in ogni modo il suono del violino e in cui ero in cerca di suoni completamente estranei e non riconoscibili rispetto a quelli del mio strumento. Per molti anni ho lavorato in questa direzione. In seguito, ho integrato nuovamente i suoni del violino, l’articolazione classica e gli intervalli – che normalmente sono così riconoscibili – per riportarli a essere parte della musica. È impossibile eliminarli.
TL: Nel nostro duo ho dovuto trattare il sintetizzatore in modo diverso, in termini di suono, volume, spazio acustico… Ad esempio, nel nostro caso gli spazi risonanti sono molto più adatti. Il nostro duo parte da due strumenti che hanno una natura completamente diversa e contrastante – come quella del violino e del sintetizzatore analogico – tuttavia non percepisco dal materiale che creiamo una differenza o uno scontro, e questo grazie anche al processo di ascolto che facciamo. Per me questo aspetto va oltre gli strumenti. Naturalmente ha a che fare con i nostri strumenti, che per me sono molto più vicini di quanto normalmente si pensi.
Dite che la vostra ricerca sonora è una sorta di gioco di specchi fra i vostri strumenti. Volete parlarcene?
TB: Sì, il paragone riguarda il modo in cui ci avviciniamo l’un l’altro e, allo stesso tempo, c’è questa “cosa” che si avvicina e che poi si allontana. Esiste un raggio di possibilità che va dall’essere molto diversi al diventare veramente un solo strumento. Il gioco di specchi consiste anche nel come il violino potrebbe diventare più vicino a uno strumento elettronico dal punto di vista sonoro, e nel come un sintetizzatore potrebbe diventare uno strumento acustico. È anche un lavoro di trasformazione delle identità dei nostri strumenti.
TL: Ogni tanto ci esercitiamo trasformando i segnali del violino in quelli del sintetizzatore. Ma non lo faremo stasera, abbiamo deciso per il momento di abbandonare questa pratica, perché è anche interessante suonare senza seguire questo procedimento. Ma anche questo è un gioco di specchi: quando il segnale del violino va dentro il sintetizzatore, allora si sente il segnale originale modulato, ma allo stesso tempo anche il violino cambia leggermente, e quindi non è così facile da percepire. È una sorta di influenza – o stimolo – reciproca: se immetto il segnale del violino nelle frequenze del sintetizzatore allora uso il violino come segnale di controllo della tensione (voltage control signal), quindi produco delle distorsioni nell’oscillatore… ma è molto difficile per l’ascoltatore percepire questa cosa! Ogni tanto vado troppo in questa direzione… perciò abbiamo pensato di rinunciare per un po’ a questa pratica. Questo tipo di ricerca è un po’ troppo limitante, quindi è utile abbandonarla per un po’.
E stasera cosa presenterete?
TL: Non lo sappiamo! È musica creata in tempo reale e inizieremo con una pagina completamente bianca. Ma la pagina bianca, naturalmente, è un’illusione perché ci portiamo dietro la nostra storia, conosciamo bene i nostri strumenti e i nostri modi per superare i nostri stereotipi. Non è davvero possibile evitare i cliché ma forse la relazione fra loro, come appaiono… quello è il momento in cui compaiono in modo diverso da quello che sono in realtà. Non è possibile pianificare l’accesso a questo modo di procedere, quindi a come si può creare la magia di questi materiali che si presentano e si relazionano gli uni con gli altri, e come vai avanti, come ti comporti quando li trovi e vuoi mantenerli, o come li interrompi, ecc. È davvero il momento quello in cui sentiamo, pensiamo, percepiamo quello che ci guida o che ci spinge… il battito della musica all’interno del flusso.
TB: E anche lo spazio è molto importante, è un altro strumento.
Questo si collega alla prossima domanda, che è sull’improvvisazione. L’improvvisazione è centrale nella vostra ricerca musicale: seguite delle regole? Avete elementi o comportamenti da perseguire o altri che cercate di evitare mentre improvvisate?
TB: Una cosa tipica dell’improvvisazione è che, inizialmente, vengono creati blocchi di materiale: si fa qualcosa con un certo materiale, ci si lavora su, poi si sceglie un nuovo materiale e si fa la stessa cosa. Io vorrei non fare mai una roba del genere, non mi piace quando la sento fare da me o dagli altri. Tuttavia, quando si è lì a suonare non si può mai sapere. Prima o dopo – ad esempio, riascoltando le registrazioni dei concerti – posso fare autocritica e dire quello che non mi ha convinto di una mia improvvisazione… Ma mentre sto suonando è difficilissimo! In ogni caso, si cerca sempre di uscire dagli automatismi, che fanno parte del nostro corpo: il nostro corpo ha in sé questi automatismi – che riguardano anche lo strumento musicale – e bisogna sempre cercare di combatterli… e questa è la parte più importante. Più che una ricerca costruttiva, a volte bisogna lavorare sul distruggere questi automatismi. Non mi piace la parola “distruggere”, forse meglio “non farsi influenzare” da questo meccanismo.
TL: Penso che non ci siano delle regole in sé, ma forse l’aspetto centrale del creare un pezzo improvvisando è l’ascolto. L’ascolto dovrebbe essere centrale sempre, anche quando si suona musica scritta. Per essere in contatto con il suono e con il processo sonoro complessivo e con la propria parte individuale che si sviluppa in un processo collettivo è fondamentale ascoltare dall’interno e dall’esterno. Stai suonando le tue cose ma, allo stesso tempo, ti stai rispecchiando o cercando di avvicinarti al resto del gruppo. L’azione dell’ascolto è molto difficile, ma penso che sia importantissima per far accadere qualcosa che non si crea troppo presto ma che si verifica più di quanto tu possa percepire. Non bisogna quindi essere troppo esitanti, ma piuttosto pronti al rischio di fallire, quindi di andare in una direzione sbagliata o poco soddisfacente. Bisogna rischiare, altrimenti non si arriva al mistero più profondo di questa musica.
TB: E al senso dell’improvvisazione.
TL: Sì, perché possono succedere cose davvero incredibili e il prezzo per questo è davvero il rischio e la possibilità del fallimento. I momenti più belli della musica improvvisata sono quando si è davvero in un flusso che ci spinge e dove le energie scorrono in un modo naturalmente magico.
TB: Suona molto esoterico! [ride]
TL: È davvero difficile spiegare questa cosa, quello che succede davvero… ad ogni modo per l’ascoltatore e anche per me è sempre una questione di mistero, di andare verso qualcosa di sconosciuto. Dopo i concerti, alcune persone mi hanno detto, quando la performance è stata davvero incredibile, che non avevano mai sentito qualcosa del genere, che non capivano questa musica ma che comprendevano che c’era qualcosa che stava succedendo. Capito? È quello che succede quando si crea quello che dico, e sono molto grato a queste persone. Succede qualcosa che trascende te come essere umano, il tuo ego. E questo mi piace molto, quando si verifica. Ma non si può forzare, è impossibile. Quando la forzi, l’intera operazione fallisce! Per me è questo il gioco: l’improvvisazione è una sorta di gioco in cui ti lanci in una situazione in cui ti muovi con il suono e con altri – per me improvvisare con altri musicisti è fondamentale, non suono molto in solo – per me è il piacere di suonare con gli altri e di stare in questo flusso sonoro con altre persone. È un gioco in cui ti lanci, che inizia e a cui partecipi… E nella tua mente tutte le tue emozioni (intellettuali, emotive, intuitive, fisiche) sono accese. È un gioco attivo su diversi livelli e a diversi gradi.
Avete progetti futuri di cui volete parlarci?
TB: Abbiamo un progetto con il compositore austriaco Peter Jakober con cui lavoriamo e con cui abbiamo registrato il primo disco con l’ensemble]h[iatus. Il progetto consiste in un lavoro che in parte è composto da lui e in parte aperto, improvvisato e sviluppato insieme.
TL: Dobbiamo lavorare insieme, provare a lungo…
TB: È un pezzo molto lungo, che sarà per violino, sintetizzatore e live electronics. Lui è molto interessato anche allo spazio, quindi lavoreremo anche in quella direzione. Con l’ensemble]h[iatus registreremo a giugno un pezzo di Anthony Pateras scritto per noi, e lì parleremo dei nostri progetti futuri, di altri compositori, ecc.
TL: Abbiamo fatto molti lavori di Vinko Globokar con l’ensemble]h[iatus e anche un importante laboratorio.
TB: Faremo un tour in Italia, nel sud-est asiatico e in Australia nel 2019… e un nuovo disco!
img © Martina Biagi
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