di Luisa Santacesaria
Lo scorso 18 ottobre, la rassegna TRK. SOUND CLUB ha ospitato Donato Epiro, compositore, performer e biologo che ha presentato il suo ultimo lavoro discografico Rubisco (Loopy, 2017). Gli abbiamo chiesto di parlarci della sua formazione musicale, della performance in programma e dei suoi vari progetti, come l’etichetta Canti magnetici e la serie Grandangolo, che cura per Soave Records.
Ci parli della tua formazione musicale?
Ho cominciato da piccolissimo a interessarmi di musica. Da piccolo cantavo in un coro, mi sono avvicinato alla musica attraverso il canto. Gradualmente, ho cominciato a capire verso che strumento indirizzarmi e ho iniziato a studiare il flauto. Quindi, ho una formazione da flautista classico che ho sempre portato avanti in parallelo rispetto agli studi: studiavo privatamente e andavo a fare gli esami al Conservatorio da studente esterno. A a un certo punto ho interrotto la mia formazione classica perché mi sono reso conto, studiando privatamente, che non avevo molta possibilità di scambio e di incontro con altri musicisti. Inoltre, il flauto è uno strumento melodico, che non riesce a dare un’idea globale della musica, idea che cercavo e che ho trovato da solo iniziando a suonare con altre persone. Ho iniziato a suonare con pianisti, con cui facevamo duetti di musica classica, fino a quando non ci siamo spostati su altro. Ovviamente, la cosa più vicina alla classica è stato un certo tipo di rock che prevedeva inserti classici: parlo del rock progressivo, che è stato proprio il passo iniziale che mi ha spinto in ambienti diversi. Ho iniziato ad ascoltare i Tangerine Dream, il primo Battiato, Diamanda Galás… album che giravano principalmente in cassetta (avrò avuto 15-16 anni). Lì mi si è aperto un mondo. Da lì la mia strada è stata quella di provarle un po’ tutte: mi interessava una concezione globale della musica. La prima cosa che ho fatto è stato approcciarmi ad altri strumenti. Ho cominciato a suonare, da autodidatta, il basso elettrico, la chitarra classica, i sintetizzatori, finché non sono approdato al computer. Ho avuto un certo timore ad avvicinarmi al computer perché vengo dalla musica suonata, ma sapevo che quello che cercavo l’avrei trovato solo grazie a questo mezzo. Ho capito che così sarei riuscito a esprimermi. Non provavo lo stesso divertimento che avevo suonando, ma trovavo altro che mi interessava. Da quel punto in poi la mia formazione è stata sempre più libera: tutto quello che ho imparato, l’ho appreso in maniera empirica, cercando un modo personale di esprimermi musicalmente. In parallelo, i miei interessi spaziavano nel campo scientifico: sono un biologo molecolare, quindi mi affascinano certi argomenti che – anche se non da subito – sono entrati in modo massiccio nelle mie creazioni musicali. Il mio primo disco [Fiume nero, 2014] aveva dei forti influssi riguardanti un’idea primitiva di musica, quasi un brodo primordiale musicale. Rubisco, il mio secondo disco (2017), è il nome di una molecola… Sono interessi che sono confluiti nella mia musica e che provengono a loro volta da altri interessi, che nascono in continuazione. Spesso sono legati anche alla letteratura (amo la letteratura fantastica, ma mi piacciono molto anche i surrealisti italiani, come Manganelli, Morselli, Buzzati, Landolfi). Alla fine, il mio suono è ciò che risulta da tutto questo, è un punto di arrivo.
Rubisco, il tuo disco uscito nel 2017, è formato da nove tracce che però costituiscono un’unica opera: ce ne parli?
Sono partito da un’idea che mi ronzava in testa da anni, dai miei studi scientifici, e cioè di questa molecola – che è la molecola più presente in assoluto nel mondo – che si trova nelle piante, e che è la responsabile dell’organicazione del carbonio. Cioè il carbonio, da una molecola inorganica, viene organicato all’interno di molecole organiche. Questo possono farlo le piante, che sono organismi autotrofi: l’uomo, ad esempio, non può farlo (l’uomo assimila molecole organiche, che poi scompone). Ho visto questa molecola proprio come una porta di passaggio fra un mondo inorganico e uno organico, e questo mi ha ispirato. Ha iniziato a interessarmi l’idea di confine che esiste fra questi due mondi – biologico e non biologico – e l’ho traslata anche su altro, come gli spazi: cioè, come uno spazio possa essere influenzato da ciò che di biologico ha ospitato, il ricordo che la materia biologica possa aver impresso a uno spazio, e come possano comunicare questi due ambienti, che cosa rimane in uno spazio non biologico di quello che è passato di biologico al suo interno. Riguardo al suono, l’ho traslato su un altro livello, legato più che altro alla memoria: quindi, a cosa del suono resta impresso nella tua testa. Quello che avevo in mente è quel suono che, dopo una serata in un club, ci portiamo nella testa quando siamo a letto: e questa non è detto che sia un’esperienza meno potente di quella che abbiamo vissuto durante il concerto. L’idea era questa. Poi, quello che ho fatto, è stato trasformare quest’idea in suono. Non in maniera descrittiva (mi sembrava banale registrare una stanza vuota): quello che è stato più difficile e che mi ha impegnato di più è stato trovare un suono che mi desse questa sensazione. Una volta trovato quel suono, che si può riconoscere in maniera uniforme in tutto il disco, e ho costruito le varie tracce. Ma la cosa fondamentale, per me, è stata proprio la ricerca di quel suono. Dopodiché c’è stata una composizione minuziosa dei vari pezzi. In particolar modo, c’è stato un mixaggio molto stretto, molto chiuso; ogni tanto ho lasciato scappare qualcosa fuori dal mix, ma cercavo un suono molto denso. E del risultato finale sono molto soddisfatto.
Quando esegui questo lavoro dal vivo, cosa lasci di aperto e adattabile al contesto (se lo fai)?
In realtà questo disco ha rappresentato per me anche un cambiamento rispetto alla performance. Ero abituato a un live molto fisico, molto suonato. In questo live, invece, cerco di restare molto fedele al disco. Poi, a seconda della situazione, scelgo di intervenire più o meno sulle tracce. Dal vivo, lo presento in una maniera molto asciutta (da un punto di vista della strumentazione): mi porto dietro quello che ho usato per comporlo, quindi il mio computer. Io lavoro principalmente sul mixaggio, quindi uso degli effetti, degli equalizzatori, dei riverberi (hardware, non digitali), non uso plug-in. Dal vivo, quindi, mi porto due registratori a nastro Marantz, su cui ho i campioni grezzi che ho utilizzato per la composizione del disco. Dal vivo, dunque, remixo in tempo reale le tracce lavorate, e le remixo con campioni random grezzi, che ho impiegato per la composizione del disco. Per me, curare soltanto la diffusione del suono, senza suonare, è un esercizio quasi zen. Ci sto provando!
Fra le varie cose, hai fondato anche l’etichetta discografica Canti magnetici.
Canti magnetici è partita nel 2015. In realtà ha una storia più lunga: nasce dalla collaborazione fra me e altri due musicisti, Gaspare Sammartano (che con me ha suonato molti anni, come nel progetto Cannibal Movie, organo e batteria), e Andrea Penso. Andrea ha prodotto il mio primo disco, Fiume nero, con la sua etichetta Black Moss, e ha prodotto il primo disco di Gaspare. Per un periodo si è trasferito in Puglia e abbiamo pensato di fare qualcosa insieme, cercando di spostare l’attenzione da quel discorso musicale – che aveva un lato più pop/popular– ad uno che fosse anche più vicino ai nostri interessi legati al cinema, alla natura, alla letteratura, alla sound art. Da questo, sono nate collaborazioni con artisti che sentiamo vicini. Le prime tre uscite (Matthew P. Hopkins, Andrea Penso, Carlos Casas), per esempio, sono tutti accomunati dal tema dell’acqua e della nebbia. O esiste, anche, un legame con determinati territori, come il disco di Casas, Vucca de lu puzzu – una zona del Salento – che ha realizzato proprio durante una residenza da noi. Lavoriamo su nastro, ma non si tratta di cavalcare una moda: usiamo il nastro proprio durante la composizione, infatti questi lavori nascono già su nastro, quindi il nastro è il supporto ideale per presentarli. A seconda dei lavori, potremmo fare delle uscite anche su cd, vinile, o anche soltanto digitali se il lavoro viene valorizzato in questa maniera. Abbiamo un po’ di materiale in uscita, come dei lavori di poesia sonora… Abbiamo dei lavori di Renato Grieco, per esempio, un suo diario di viaggio; uno di Mark Vernon, uno di Emiliano Maggi…
Oltre a questo, curo una serie di Soave Records che si chiama Grandangolo. Abbiamo fatto quattro uscite per ora. Sono partito con lavori che potessero fare da contraltare alle ristampe solitamente pubblicate su Soave Records (minimalismo italiano degli anni Ottanta, soprattutto, come Riccardo Sinigaglia, Giusto Pio, Gianni Venosta, Roberto Musci). Ho cercato la controparte attuale di questi suoni: Golden Cap, Squadra Omega, Heroin in Tahiti, Massimo Pupillo con Stefano Pilia. Ora mi sto spostando su un suono ancora diverso: il prossimo disco sarà l’album di Sandro Mussida, compositore italiano che mi piace tantissimo.
Hai progetti futuri che vuoi raccontarci?
Sto terminando una composizione che mi sta impegnando molto e che si chiama L’origine degli uccelli. È un lavoro nato da nastri che ho ritrovato, risalenti a 25-30 anni fa, dove sono registrate le prove di un coro. Ho fatto un lavoro su questi nastri, sui luoghi in cui sono stati registrati, sui luoghi attorno alla vita di questo coro – in particolare su un quartiere di Taranto che ospitava le prove. Si tratta di una prosecuzione del lavoro su Rubisco: in questo caso, però, prende il sopravvento la vita. Mentre in Rubisco si parlava di “assenza”, qui si parla di “presenza”, però di una presenza all’interno del ricordo. Può sembrare un lavoro più grezzo rispetto a Rubisco, perché non sto trattando i nastri: anche quel minimo di post-produzione che ho fatto in Rubisco, in questo nuovo lavoro è proprio assente. Nel mixaggio cerco di intervenire esclusivamente sui volumi, di non equalizzare, se non proprio dove ci sono errori evidenti. Ho terminato una prima stesura del lavoro sui nastri; la mia idea è di abbinarci un pezzo parallelo in cui registro strumenti acustici in alta definizione – probabilmente flauti, organi, strumenti in vetro – cercando di far convivere questi due mondi. È un’idea che chiuderò entro l’anno. Poi sto elaborando altri progetti di musica “suonata”, acustica: ho intenzione di comporre un lavoro per flauto e sintetizzatore e uno per flauto e organo e, se ci riuscirò, per un coro. Questi pezzi avranno sempre un taglio elettronico, che però riguarderà la ripresa, il posizionamento dei microfoni e il mixaggio. Sempre con l’idea di portare al minimo l’intervento di post-produzione.
img © Simone Petracchi (The Factory prd)
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