di Marco Baldini e Luisa Santacesaria
Il 16 aprile 2021 è uscito per Neuma Records Subtle Matters, ultimo lavoro discografico di Agnese Toniutti, pianista specializzata nel repertorio del XX secolo e contemporaneo. Subtle Matters è dedicato all’esplorazione delle possibilità timbriche del pianoforte attraverso le ricerche, preparazioni e prospettive estetiche di tre compositori caratterizzati da approcci molto diversi: Lucia Dlugoszewski (1925-2000) con Exacerbated Sublety Concert (Why Does a Woman Love a Man?) per timbre piano, Tan Dun (1957) con C-A-G-E, fingering for piano, e Philip Corner (1933) con Toy Piano, Man in Field (the sound as “Hero”), Small pieces of a Fluxus reality e A really lovely piece made for & by Agnese.
Le abbiamo fatto qualche domanda.
Lucia Dlugoszewski è una compositrice e pianista il cui lavoro è in gran parte poco conosciuto. Abbiamo scoperto l’opera di Dlugoszewski grazie a Philip Corner che ci ha consigliato l’ascolto di Space is A Diamond. Come ti sei avvicinata alla musica di questa compositrice?
Grazie al prezioso suggerimento del musicologo Veniero Rizzardi. Stavo cercando compositrici che avessero un rapporto di stima e connessione professionale con alcuni degli autori di cui ho più approfondito l’opera nel mio percorso performativo e di ricerca. Mi sono rivolta a Veniero in relazione a John Cage, riguardo al quale Rizzardi è uno studioso di riferimento. L’indizio che mi ha dato consisteva nel nome della Dlugoszewski e nella menzione di una delle sue invenzioni, il timbre-piano, “che secondo me potrebbe interessarti”. La cosa si faceva intrigante, ho iniziato a investigare e alla fine… aveva ragione lui.
Per ricreare il timbre piano di Lucia Dlugoszewski, hai portato avanti un processo di ricerca che è partito dall’ascolto analitico dell’unico documento sonoro di lavoro per timbre piano pubblicato (e suonato dalla stessa compositrice). Osservando il catalogo delle opere di Dlugoszewski, notiamo come il timbre piano non sia semplicemente un pianoforte preparato ma un vero e proprio strumento musicale, per il quale la compositrice ha scritto diversi lavori. Dalle tue ricerche, sei riuscita a risalire se questo strumento venisse modificato a seconda dei pezzi o se avesse una conformazione fissa? Cosa si sa della sua preparazione e del modo in cui Dlugoszewski la realizzava?
All’inizio delle mie ricerche non conoscevo assolutamente nulla sul timbre-piano, tranne il nome. Mi immaginavo di trovare qualcosa di simile al prepared piano di John Cage, con una corrispondenza univoca tra sollecitazione dello strumento in un determinato punto (tasto o altro) e risultato sonoro. Tanto per capirci, come quando abbassando un preciso tasto del pianoforte si ottiene un suono “modificato” simile a gong, oppure a bongos, grazie al fatto che prima, tra le corde, è stata inserita una vite o piuttosto un pezzo di plastica. Invece non si tratta di questo. La denominazione timbre-piano definisce più una tavolozza timbrica, un insieme di modalità di produzione del suono all’interno dello strumento attraverso specifici gesti, dinamiche e oggetti, modalità agite però in modo istantaneo durante l’esecuzione. Raramente, e solo in certi pezzi, ci sono alcuni tasti preparati in precedenza, alla maniera di Cage. In Exacerbated Subtlety Concert non ce n’è nessuno, tutto avviene sul momento e la cordiera ritorna “vuota” alla fine di ogni gesto sonoro.
Non si può nemmeno dire, però, che il timbre-piano sia “semplicemente” il suonare il pianoforte con le cosiddette “tecniche estese”: qui parliamo di una scelta specifica e molto raffinata di timbri, che porta chiaramente la firma della compositrice e ne dichiara e realizza l’estetica. Non per nulla il critico newyorkese Robert Sabin ha sentito l’esigenza di coniare questo neologismo alla fine di un concerto della Dlugoszewski – e la compositrice l’ha in seguito fatto proprio.
Dunque, per rispondere alla prima domanda: i pezzi, dai documenti che sono riuscita a consultare, si rifanno ad un ricco insieme di timbri peculiari che costituiscono il vocabolario dell’autrice. Ogni pezzo, pur riferendosi allo stesso vocabolario, articola il discorso a suo modo.
Il difficile, e qui rispondo alla seconda domanda, è ricostruire da un lato le tecniche di produzione del suono, dall’altro decifrare i documenti scritti disponibili. Dlugoszewski, con studi pianistici classici, era la principale esecutrice di sé stessa nel caso dei pezzi per timbre-piano. La scrittura è a volte assente, a volte si concretizza in appunti di tipo più compositivo che esecutivo, in altri casi la precisione è maggiore ma pur sempre non sufficiente per ricreare il pezzo in concerto. Può darsi che in futuro il materiale documentale aumenti; io stessa sto raccogliendo sempre più elementi a riguardo, e questo si riflette poi nell’esecuzione musicale. Fatto sta che a parte un elenco di massima di possibili oggetti per sollecitare le corde e alcune indicazioni gestuali generiche (come glissati, pizzicati, tremolo), molti altri elementi utili per una performance non ne ho trovati. Ci sono le orecchie, però, e la preziosa registrazione del 2000 ad opera della stessa autrice: grazie all’ascolto, con pazienza, ho completato per quanto possibile i vuoti di informazione.
Puoi parlarci della tua collaborazione con Philip Corner? Come lo hai conosciuto e ti sei avvicinata alla sua opera?
Anche qui è un’amica musicista che devo ringraziare, Deborah Walker, che si occupa da tempo sia sul palco che nella ricerca di movimenti artistici sperimentali degli anni ’70, e in particolare del movimento Fluxus. Avevo da poco eseguito Emmett Williams’s ear, una partitura grafica di Dick Higgins, anch’egli esponente del movimento Fluxus; grazie al contatto di Deborah mi sono arrischiata a spedirne la registrazione a Corner, che mi ha subito risposto. Allo scambio epistolare è seguito un incontro – fortuito ma dal tempismo perfetto – e in seguito ho iniziato a cimentarmi sui suoi pezzi.
I brani di Corner che esegui esprimono ognuno una precisa e diversa idea musicale ma, nelle loro differenze, presentano organicamente la complessità e coerenza dell’universo poetico del compositore. Come è stato lavorare sui suoi pezzi ed entrare nella sua estetica attraverso il tuo strumento (che poi è anche lo strumento principale di Corner)?
Lavorare sui pezzi di Corner è un’esperienza stimolante, coinvolgente e rischiosa. Le sue partiture verbali circoscrivono un ambito di azione e indicano l’idea musicale generatrice, ma le azioni per realizzare il pezzo nel dettaglio, restando fedeli ai parametri dati, sono a carico dell’interprete. L’esecutore è chiamato a fare scelte da compositore, e questo è allo stesso tempo elettrizzante e rischioso: più c’è libertà più aumenta la responsabilità – la musica non è diversa dalla vita. Suonare le composizioni di Philip richiede dunque un alto livello di presenza a sé stessi, ma d’altronde anche chiacchierare con lui è così! Credo di essere entrata nella sua estetica sbagliando strada: il primo pezzo che ho eseguito in concerto è stato rimandato al mittente con altro nome. L’episodio è divertente e anche emblematico: subito dopo il concerto ho spedito a Corner la registrazione della mia prima esecuzione di Small pieces of a Fluxus Reality, e la sua risposta è stata “Bello, ma non è il mio pezzo”. Così ha scritto un’altra partitura e me l’ha mandata, A really lovely piece made for & by Agnese, specificando che quella era la partitura del pezzo che avevo suonato. L’operazione ha avuto l’effetto desiderato: un rapidissimo re-set di tutti i parametri grazie al gioco “trova le differenze”! La seconda esecuzione di Small pieces è stata infatti sdoganata, come il resto dei pezzi che sono seguiti. Molto ha aiutato anche avere la possibilità di conversare con Philip, non solo di musica ma di tanti altri temi che nella musica poi confluiscono.
A proposito del pezzo C.A.G.E. di Tan Dun, quanto le tecniche estese e le preparazioni che hai usato per eseguire questo lavoro sono descritte dettagliatamente in partitura? Che margine di libertà – tecnica e nell’uso dei materiali – hai avuto per raggiungere i risultati sonori che sentiamo nel disco?
Nel caso di Tan Dun il margine di manovra per l’esecutore è minimo, paragonabile a quello di una partitura tradizionale. Tutte le modalità di produzione del suono e del conseguente risultato acustico sono specificate nel dettaglio, e la scrittura, pur con segni aggiuntivi specificati in legenda, è tradizionale. Solo in alcuni punti viene concessa qualche libertà agogica, ma a parer mio da mettere sempre in relazione alla risonanza del suono, altrimenti si rischia di perdere la tensione ritmica che anima la composizione. Questo detto, anche sulla cordiera, così come sulla tastiera, tocco e gesto possono fare una sensibile differenza per quel che riguarda il risultato finale.
A qual* compositor* vorresti dedicare le tue ricerche nel prossimo futuro?
Al momento sono al lavoro su compositori e compositrici in qualche modo collegati a quelli presenti in Subtle Matters, ma ci sono in cantiere anche progetti differenti. Ho spesso la sensazione che sia la musica a decidere dove devo andare, e non il contrario: sono quindi curiosa anche io di scoprire cosa si concretizzerà nel prossimo futuro!
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