di Giulia Sarno
[Questo focus sul lavoro del collettivo S’odinonsuonare è il primo capitolo di uno speciale su lavori di danza che utilizzano sensori di movimento associati all’elaborazione del suono in tempo reale. Foto, riprese e intervista a cura di Giulia Sarno.]
Abbiamo incontrato Alessio Mazzaro, performer, e Marco Campana, compositore/audio designer, in occasione della loro partecipazione al programma di residenze In_Tempo Reale. Ci hanno parlato del progetto cui stanno lavorando e della performance che ne seguirà, che avrà il titolo How we deal with technology e di cui abbiamo avuto un assaggio quando, qualche giorno dopo, siamo andati a trovare Alessio e Marco allo spazioK, sede del gruppo di danza sperimentale Kinkaleri, dove la loro residenza è proseguita. Lì abbiamo conosciuto anche Elisa D’Amico, la danzatrice che sta lavorando con S’odinonsuonare alla performance. Oltre all’intervista, vi proponiamo un video che contiene in anteprima alcuni estratti di How we deal with technology.
ALESSIO MAZZARO Si tratta di un progetto molto lungo che ha avuto diverse riflessioni e modifiche nel corso della sua durata. È partito dall’interesse che avevamo a indagare come il suono potesse modificare il movimento di un performer in scena, ad esempio – cosa molto semplice – creare dei suoni che fanno sentire il performer pesante e che dunque si muove in quel modo, o leggero… Indagare un po’ cosa poteva essere questa possibilità. Allo stesso tempo ci interessava l’idea di dire: se creiamo uno strumento che aderisce al corpo – quindi quando mi muovo posso trasformare il movimento in suono – è come se ci fossero due possibilità: da un lato mi posso muovere pensando solo alla qualità sonora, e quindi avere del movimento come risultato, e dall’altro lato invece mi posso muovere pensando solo alla qualità del movimento, e avere del suono come risultato. Questo è stato il punto d’inizio. Marco ha costruito questo sistema che è Flex, un sistema di quattro sensori a piegamento che trasmette dati in wifi, che ci ha permesso di indagare questa cosa. Sin da subito queste due modalità di composizione sono state un po’ gli estremi su cui si poteva lavorare, ma la cosa più interessante è che se io produco dei suoni o dei setup acustici che mi creano questo condizionamento emotivo all’interno… è come se facessi un movimento, e questo movimento genera un suono che mi porta a fare il movimento successivo, quindi c’è una concatenazione tra queste due possibilità.
GIULIA SARNO Dunque quelli sono i due orizzonti estremi, e in mezzo succedono le cose interessanti, capire quanto una dimensione condizioni l’altra…
A. M. Esattamente. Infatti quando abbiamo cominciato a creare questi set acustici… la prima fase del lavoro dopo aver creato lo strumento è stata imparare a usarlo perché, quando hai uno strumento nuovo, da un lato hai infinite possibilità, quindi devi cominciare a darti dei limiti solo per capire all’interno di cosa ricercare. Avevamo questo problema, che tante cose che erano perfette per me, da dentro per il movimento, acusticamente non funzionavano per Marco, mentre alcune cose che per lui erano perfette acusticamente, erano completamente inutilizzabili o fastidiose per me, e quindi abbiamo veramente passato un anno a ricercare questi setup acustici. Le due precedenti residenze allo STEIM di Amsterdam sono state principalmente su questo aspetto. Fatto questo, il passo successivo è stato quello di rendersi conto che sul palco ci sono un sacco di tecnologie che le persone stanno utilizzando, però da un lato abbiamo assunto una presa di posizione perché tanti lavori che vedevamo erano semplicemente per illustrare quello che lo strumento poteva fare.
MARCO CAMPANA Avevano una piega dimostrativa vera e propria, no?
A. M. Sì, è molto… come dire? Scenica, molto “per far scena”…
M. C. Cosa che è capitata anche a noi iniziando a ricercare, comunque, che a un certo punto ci rendevamo conto che sembrava tipo un catalogo di vendita di qualcosa, una dimostrazione sul campo della cosa.
A. M. Però non ci interessava molto e allo stesso tempo non ci interessava un utilizzo puramente narrativo della cosa. Abbiamo fatto questa performance che si chiamava Dance During Wartime sull’importanza che hanno avuto le dance house durante la guerra, e lì veramente utilizzavamo il Flex semplicemente per aggiungere degli effetti acustici al movimento narrativo. Era come quando prendi un video e in postproduzione metti degli effetti al movimento, era la stessa cosa, molto limitante. Quindi siamo tornati un po’ indietro semplicemente all’idea di utilizzare lo strumento e all’idea di avere per ogni setup acustico una linea di movimento precisa, prefissata. E questa cosa per noi era interessante perché in questo caso Marco poteva passare da un setup all’altro avendo da me, o da un qualsiasi danzatore, in risposta quei movimenti, quindi era come creare un dj-set del movimento da parte sua dove lui sta pensando al suono e il danzatore invece sta rispondendo con il movimento. Questo “scratchare” il ballerino ci interessava come approccio.
G. S. Spiegatemi come sono fatti questi setup.
M. C. Durante la fase di ricerca appunto siamo arrivati a dei setup, come li chiamiamo noi, in cui si riesce a creare un tipo di interazione suono-gesto, nel senso che ci possono essere diversi tipi di interazione con i sensori sulle ginocchia e gomiti. Si tratta di sensori resistivi, sono delle piccole resistenze a fettuccia che messe sulle ginocchia e sui gomiti cambiano a mano a mano che si estende o si piega un braccio o una gamba. Quindi avendo questi valori da 0 a 100 è possibile individuare una serie di offset ai quali assegnare una nota, e quindi per esempio quando apri un braccio senti una serie di cinque, dieci, mille note che si susseguono e anche quando lo chiudi. Oppure può essere cambiato in modo più dinamico assegnando l’estensione del braccio e della gamba a un parametro di effetto, e quindi si può variare una mandata a un riverbero, cose così. Dunque seguendo questa strada abbiamo creato dei setup chiusi che permettono di avere diversi gusti di interazione.
G. S. E durante il live tu puoi passare da un setup all’altro…
M. C. Sì sì, il lavoro è proprio questo. Ci siamo resi conto anche che la sorpresa innesca una reazione abbastanza istintiva nel ballerino, e quindi vedere proprio questi cambi e questi passaggi è la cosa che rende interessante il lavoro.
A. M. Sì, il momento più forte è quello in cui ogni volta il ballerino si deve re-immergere in quella dimensione sonora, quindi trovare come il suo corpo si adatta a quella dimensione. È molto più interessante di quando conosce lo strumento e comincia a decorare con lo strumento, da questa cosa cerchiamo di allontanarci molto. Ed ora siamo in questo momento di chiusura del progetto, che è quasi triennale ormai, e la performance di chiusura, che si chiama How we deal with technology… perché finora è stato un po’ un esempio di come io e lui ci rapportiamo alla tecnologia: il fatto di creare uno strumento e arrivare poi al momento di volerci dichiarare indipendenti da questo strumento, a tal punto che abbiamo creato un setup che serve per bloccare il suono, non per suonare, in cui parte un larsen e io mi devo muovere velocemente per azzerarlo… Quello che vorremmo provare ora è quest’idea di avere due linee coreografiche: in una Marco fa appunto questo dj-set del movimento quindi cambia da un setup all’altro, nella seconda invece la danzatrice trova solo i movimenti che non suonano per ogni setup, e quindi comincia quasi…
M. C. … una ribellione, quasi
A. M. Sì, di tiro della corda tra loro due…
G. S. Quindi lei deve esplorare il movimento, non sapendo quale sarà il movimento che non produrrà suono, dunque deve trovarlo, in un’esplorazione del corpo.
A. M. Esatto, e una volta trovato comincia questo gioco tra loro due che è una sfida, perché lei non suona e allora lui le mette la roba che suona quando sta ferma, e allora lei comincia a muoversi quindi… Stiamo proprio lavorando su tutti questi piccoli meccanismi di innesco che sono quasi un tiro alla fune tra due bambini, ed è proprio il senso di creare uno strumento e potersene dichiarare indipendenti a un certo punto. Quindi la performance è diventata una specie di somma di tutto quello che è stato il nostro lavoro su Flex.
G. S. Bene. Vedo che come interfaccia usi Ableton Live…
M. C. Sì, tecnicamente c’è un modulo XV radio che converte i dati dei quattro sensori e li invia a un altro modulo attaccato al computer che è USB. Tramite Max viene fatta tutta la decodifica dei dati. Principalmente quello che utilizzo è la posizione assoluta del movimento e anche la velocità del movimento, quindi gesto più veloce o più lento. E poi questi parametri vengono interfacciati a Live via midi e da lì ci sono tutte le diverse scene.
S’odinonsuonare allo spazioK
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