di Giovanni Mori e Luisa Santacesaria
[In occasione del centenario dalla nascita di Pietro Grossi, musicaelettronica.it propone una serie di contributi dedicati al pioniere della computer music in Italia.]
Abbiamo intervistato Albert Mayr, compositore e storico collaboratore di Grossi al Conservatorio di Firenze.
Giovanni Mori: Potrebbe raccontarci com’è avvenuto il suo incontro con Pietro Grossi?
Albert Mayr: Erano i primi anni Sessanta. Io ero allievo del Conservatorio, ma non sapevo nulla dell’attività extra-Conservatorio di Grossi. Avevo sentito un po’ di musica elettronica a Darmstadt, perciò ero curioso, e poi alla RAI di Milano mi dissero che Grossi aveva costruito uno studio privato. Dopo alcuni tentativi, io e alcuni altri allievi del corso di composizione siamo andati a casa di Grossi: con estremo entusiasmo e dedizione ci ha spiegato tutto. C’erano gli oscillatori chiaramente, magnetofoni, generatori di rumore bianco, e una specie di temporizzatore che faceva degli inviluppi, tutto qua. Io rimasi affascinato e ho cominciato a lavorare lì con Grossi. L’anno successivo (1966) cominciò il corso al Cherubini, il primo corso di musica elettronica in Italia. All’inizio io non c’ero perché avevo vinto una borsa per Berlino, ma dopo qualche mese Grossi mi chiese di andargli a fare da assistente, cosa che ho fatto per tre anni, lì al Conservatorio.
GM: La strumentazione di Grossi era già stata trasferita lì?
AM: Sì, nell’autunno 1965 il Ministero diede il permesso di istituire questo corso straordinario, facoltativo, e così l’apparecchiatura da casa Grossi, con grande sollievo della moglie, venne trasferita alla sede del Conservatorio.
GM: Quali aspetti dal punto di vista umano l’hanno colpita di più della figura di Grossi?
AM: Ce ne sono tanti. Grossi per me è stato oltre che un’influenza molto forte e un maestro, anche un amico paterno per molti versi. Per esempio, nel 1967 ebbi un incidente molto grave, di cui pago le conseguenze tutt’ora, e lui è stato veramente un aiuto importante, anche per mia madre… Una cosa importante per me di Grossi era che sì, aveva le sue idee, che erano ben definite, ma a livello didattico non le imponeva, non necessariamente voleva creare la “scuola Grossi”. Io e altri eravamo abbastanza vicini al suo pensiero, però nel corso se un ragazzo o una ragazza voleva fare una cosa del tutto diversa bastava che fosse in qualche modo dignitosa dal punto di vista tecnico e per lui andava bene. L’epoca era quella dell’arte programmata, nell’aria c’era un certo approccio rigoristico al fare arte, e perciò non è che Grossi fosse solo in quell’epoca: era importante l’amicizia con Lara Vinca Masini, la critica d’arte che era la porta bandiera dell’arte programmata. Oltre a Firenze, c’era anche Padova, c’era il gruppo N, l’NPS dove lavorava Teresa Rampazzi, a Torino c’era Enore Zaffiri che all’inizio aveva un approccio molto “numeristico”. E c’era Grossi, con questa sua apertura anche su altre cose, sul piano per esempio dell’organizzazione anche: ha diretto per anni Vita Musicale Contemporanea, che era la prima serie di musica contemporanea a Firenze, negli anni Sessanta. Ricordo ancora una volta che ero andato a casa sua per altri motivi e gli chiesi “Ma quel pezzo, quella roba lì che hai suonato l’altra sera…” e lui mi disse “Sono cose che vengono fatte oggi ed è giusto presentarle”. Non aveva preclusioni di tipo estetico. Io ero molto più rigido, intendevo fare delle linee di demarcazione più precise…
GM: Grossi fu un eccellente violoncellista – fu primo violoncello del Maggio Musicale Fiorentino – e dunque fu molto apprezzato dall’ambiente musicale del tempo. Lei ricorda come fu ricevuta la notizia del suo abbandono totale del violoncello, e quale fu la contro reazione di Grossi?
AM: L’abbandono non fu immediato. Era un mondo al quale comunque lui era legato in un certo senso. Ricordo che ancora negli anni Ottanta lo chiamarono a un concorso di violoncello a Bologna credo e lui ci andò. In quell’occasione mi disse: “Sì, vado, perché sai, in fondo, rivedo vecchi amici…”. Certamente il prestigio che lui si era conquistato come violoncellista in un certo senso gli ha dato qualche contatto che poi ha usato anche per la musica elettronica. Certo, noi sappiamo com’è il pubblico: il grande strumentista che non suona più lascia interdetti. Ma Grossi, anche se non ha letto i teorici del Medioevo, ha un po’ seguito le loro indicazioni, nel senso che la musica deve anche condurci verso altre discipline, deve anche illuminare le ricerche in altri campi. Se posso citarlo, Isodoro di Siviglia nel 630 scrive: “Senza musica nessuna disciplina può essere perfetta”. E infatti il lavoro di Grossi, anche se in quegli anni ancora l’evento centrale era il suono, si rivolgeva anche a questioni sociali, a problemi di organizzazione del lavoro musicale, ai cambiamenti che l’avvento di quei mezzi – per quanto ancora abbastanza lenti e imprecisi – comportava. Lui era sempre molto attento a cogliere queste implicazioni. E su questo si differenziava dalla maggioranza dei compositori elettronici, che erano più inclini a pensare ai nuovi mezzi solo come un arricchimento, senza pensare a cambiare la vita musicale dalle fondamenta, come invece voleva fare Grossi.
GM: Com’era visto il lavoro che si svolgeva all’S 2F M all’esterno, cioè in città, o anche nell’ambiente musicale? C’era interesse, oppure lo studio era una sorta di isola?
AM: In un certo senso era un’isola e veniva guardata con sospetto all’interno del Conservatorio da tutti, dai docenti, dagli allievi, dai bidelli anche. Però c’erano anche delle visite di interessati o semi-interessati all’interno del Conservatorio… Ma l’S 2F M aveva collaborazioni importanti, con Arrigo Benvenuti, con Bortolotti che veniva apposta da Roma per lavorare con Grossi e così via… C’erano artisti visivi, Auro Lecci, Maurizio Nannucci, Ketty La Rocca, e altre presenze più occasionali. Grossi fu poi invitato da Bruno Munari a collaborare a un suo lavoro, il Tetracono, che musicalmente diventa il Tetrafono. Nella città… sì, parliamo di un periodo – gli anni Sessanta – in cui certamente c’era più apertura verso le novità, verso le cose inedite, sia nel campo delle arti visive che nel campo della musica, per cui l’interesse senz’altro c’era. Poi certo, la linea di Grossi, che era quella di un lavoro molto rigoroso, non piacque a tutti, diciamo così. Quando poi Grossi scelse la via del computer già negli anni Sessanta lasciò un po’ a me la gran parte dell’insegnamento analogico al Cherubini, e chiaramente col computer nulla concesse al piacere: “Onda quadra!” diceva all’epoca e a chi replicava che fosse brutta diceva “Non importa, onda quadra!”.
GM: In cosa consisteva il lavoro presso l’S 2F M? Potrebbe raccontarci un episodio significativo, oppure una giornata tipo?
AM: Grossi aveva impostato il lavoro in maniera… Prima lavorava da solo chiaramente (tra i primi lavori bellissimo è per esempio il PG4, che ritengo ancora molto importante), poi quando arrivammo noi giovani volenterosi e anche poi gli studenti del corso, c’erano dei progetti che portavano la firma di Grossi ed erano pensati da lui, però alla realizzazione pratica, che all’epoca, con gli oscillatori, era lunga e faticosa, partecipavamo tutti: un lavoro come OM – Offerta musicale, o anche Battimenti, in parte erano frutto di collaborazioni. E poi c’era anche la possibilità di sviluppare progetti individuali, che venivano presentati al saggio di fine anno. Poi Grossi si adoperava per far avere anche altri insegnamenti, c’era per esempio l’insegnamento di matematica, per chi non ne sapeva nulla (per i musicisti allora era la regola). Poi ci fu il corso di informatica musicale, di Fortran, lo storico linguaggio di programmazione…
GM: Quindi non è che ogni membro che veniva a lavorare lì avesse un ruolo preciso…
AM: No, no. Il posto era anche piccolo, non è che ci fossero tanti ruoli, anche perché il fatto era che quelle poche macchine erano quelle lì e poi ci dividevamo i vari compiti (tu oggi lavori su questo, io domani faccio quest’altro…). Poi non eravamo lì tutti i giorni, chiaramente, neanche Grossi, perché all’epoca aveva ancora il violoncello. Anch’io avevo la scuola media e cose varie. Non c’erano dei dipartimenti, o cose così.
GM: Quindi era, diciamo, una situazione molto collaborativa, dove le persone potevano avere vari compiti.
AM: Era una situazione molto collegiale, sì.
GM: Ha citato Battimenti. Sappiamo che, secondo Lei (e noi condividiamo questa prospettiva) Battimenti è forse l’opera più significativa del periodo elettronico di Grossi e anche una delle più importanti della sua carriera. Potrebbe raccontarci la storia di quest’opera?
AM: Battimenti è un lavoro che a me piace molto e che ho sentito e fatto ascoltare in diversi contesti, anche come installazione sonora in galleria, ecc. Battimenti penso sia importante perché mostra il Grossi più coerente, più radicale. Nello stesso momento, Battimenti ha anche un aspetto ironico: voi sapete che nella musica tradizionale, il battimento è un fenomeno che si evita. Un coro di flauti dolci provoca battimenti a non finire. Quindi, battimenti no. E, invece, lui capovolge: battimenti sì, e ne fa un lavoro. Effettivamente, la sua tecnica di procedere gradualmente e sistematicamente (prima due battimenti a distanza di 1 Hz, poi 2 Hz, ecc.) ha funzionato – cioè, a volte ha dato risultati, diciamo pure, noiosi, ma Battimenti è uno degli esempi (come anche le fasce sonore, con diversi rapporti di frequenza, ecc.) che anche all’ascolto ti possono affascinare. All’epoca poi venivano fuori anche questi aspetti “minimalisti”: il pezzo con una nota sola che dura tre ore… no? Non è che il minimalismo fosse tutta invenzione di Grossi, ma c’era un certo minimalismo che era tutto suo e che per me ha un fascino ancora oggi.
Luisa Santacesaria: Ma, che lei sappia, Grossi non aveva mai avuto rapporti diretti con i minimalisti americani?
AM: No, lui aveva deciso che doveva andare per la sua strada, però chiaramente non viveva in una cella di convento, probabilmente alcune cose le aveva sentite… Non era molto incline a parlare delle cose fatte da altri, delle tendenze altrui. Come ho detto prima, il suo tema privilegiato era quello delle implicazioni, anche sociali, dell’uso dei nuovi mezzi, come il computer. E lui, pur insegnando ancora violoncello, aveva questo conflitto d’interessi, per così dire, cioè credeva nel superamento dello studio degli strumenti. Il che, naturalmente, avrebbe comportato delle conseguenze abbastanza grosse in tutto il mondo musicale e culturale in genere.
GM: E che poi ha portato alla concettualizzazione della Homeart.
AM: Sì, che è l’ultima tappa di questo suo percorso.
GM: Com’era Grossi come maestro? Come si rapportava con i suoi allievi?
AM: Guarda, io l’ho avuto come maestro solo per la musica elettronica. Era molto paziente. Io poi non sono uno molto portato con le cose tecniche… Qualche volta si spazientiva, ma in generale era di una tolleranza estrema. Quando però dovevamo fare qualcosa che portava la firma dello studio… Per esempio, io dovevo fare nel 1966 un progetto per questa mostra intitolata Ipotesi linguistiche intersoggettive (tipico titolo anni Sessanta) curata da Lara Vinca Masini, dove c’era arte visiva, un po’ di poesia e musica; io avevo proposto un progetto nel quale era subentrata subdolamente qualche riflessione estetica. E Grossi mi disse: “No, tu hai impostato un certo tipo di ricerca e questa va seguita pedissequamente… nessuna riflessione estetica, che orrore!”.
GM: Quindi era molto paziente ma rigoroso.
AM: Sì, sì. Paziente ma sulle cose che portavano la firma dello studio era rigoroso, altrimenti si sarebbero chiamate “Albert Mayr” o “Maurizio Nannucci, Studio 1, Esperienza 3”, o qualcosa del genere.
GM: Qual è stato fra gli insegnamenti che le ha trasmesso Grossi quello che ha maggiormente influito sulla sua carriera?
AM: Tornerei un po’ su quell’aspetto che ho citato prima. Grossi era molto cosciente che questi mezzi avrebbero cambiato l’idea stessa di musica e lui avocava un approccio interdisciplinare al suono, che non fosse solo mirato a esplorare la musica nel senso letterale del termine, ma che portasse a un’esperienza, a un’attenzione verso il suono in grado di aprire nuovi orizzonti, grazie a ciò che questi mezzi potevano offrire. Una cosa che mi ha sempre molto influenzato è stata questa apertura verso cose “strane”. Tutto il lavoro successivo negli studi con il voltaggio, che ha sostituito i circuiti “classici”… anche lì, a differenza di altri miei amici e colleghi, ho sempre cercato di capirne il senso. Una volta aveva voluto mettere su un’onda sub-audio di 20 secondi di durata e come onda di controllo per altre cose. Negli studi di Grossi onde sub-audio di quelle durate non si potevano costruire, però… portava avanti quest’indagine minimalista su cose che dal punto di vista musicale, nel senso corrente del termine, non davano grandi risultati, però facevano riflettere. Se una nota glissa così per 20 secondi quasi non te ne accorgi… Ecco, cose così mi hanno sempre affascinato. Poi, quando in tempi più recenti, cioè verso gli anni ‘70, ho cominciato ad interessarmi ai teorici medievali, ho trovato dei punti di contatto con questa musica che ci insegna ad aprire il mondo. Tutto ciò è stato dimenticato nella fase successiva della storia della musica e nel Novecento addirittura viene indicata come una follia medievale. Tuttavia, sembra che recentemente si stiano cominciando un po’ a riscoprire.
GM: Secondo Lei, perché le composizioni grossiane pre-elettroniche, cioè quelle composte per ensemble strumentali acustici, sono rimaste pressoché ineseguite, a parte l’esempio del recente CD pubblicato dalla fondazione Atopos?
AM: Beh, sono opere molto ascetiche. Molto molto ascetiche, direi. E penso che lo strumentista medio non abbia una particolare passione per l’ascetico. Uno strumentista vuol farsi sentire, vuol far vedere cosa sa fare. Non vuol fare semplicemente una nota, poi dopo un po’ un’altra. A me piace particolarmente Composizione n.12, che è un lavoro che si ascolta volentieri. Altri lavori invece ti forzano ad ascoltare in modo diverso. Ti spiego meglio: io sono cresciuto attraverso la scuola di Battimenti, quindi naturalmente apprezzo anche quelle cose strumentali ascetiche, perché so cosa c’è dietro. Tuttavia mi rendo ben conto che per il mondo musicale “normale” sia un po’ dura, per così dire (ride).
GM: Forse già a partire da queste composizioni, Grossi tendeva a far emergere il gruppo più che il solista, forse inconsciamente…
AM: Sì, in effetti non ci sono parti soliste in queste composizioni. Ma non saprei…
GM: L’ultima domanda, quella conclusiva. A cento anni dalla nascita e a quindici dalla morte, qual è il bilancio dell’eredità grossiana?
AM: Prima di tutto, penso sia importante, e spero che con l’iniziativa promossa dal Museo del Novecento si riesca a farlo, dare più spazio anche alle idee più radicali di Grossi. Va detto, lui non le ha mai pubblicizzate. A parte, come abbiamo detto prima, la HomeArt che tuttavia ha reclamizzato con tre frasi appena: non è che lui avesse scritto un manifesto di cento pagine. Ne ha semplicemente parlato con me e con altri. Quindi mi auguro che si possa discuterne e non soltanto prenderne atto come un fatto un po’ bislacco, come di solito si parlava di Grossi. Bisogna discutere il senso dell’opera d’arte, che tuttavia lui ha messo in questione da sempre arrivando a vette come Kronos.
GM: Kronos è quell’opera in cui Grossi riusciva ad “andare indietro nel tempo”, no?
AM: Sì, diciamo che riusciva a ricostruire un pezzo musicale generativo e sentirlo come avrebbe suonato cinquanta anni fa oppure tra cento anni. Questo può sembrare un esercizio un po’ così, fine a sé stesso, ma invece non lo è. È importante questa riflessione sulla possibilità, in questo caso limitato a fatti sonori, di prevedere delle azioni. È una cosa che adesso accade in molti altri campi della realtà, per esempio nella previsione, o meglio pre-costruzioni dei movimenti in una certa misura. Tutta questa caratterizzazione, in questo caso dell’opera, e di questo Grossi all’epoca non sapeva, ora si estende anche alle persone. È uno spunto di riflessione ed è bello che sia venuto dal campo musicale, dalla dimensione estetica. Ora dico una cosa che forse Grossi non approverebbe: forse un’arte conscia delle proprie possibilità, e conscia dei pericoli che comunque ci sono di disumanizzazione in queste nuove tecniche creano dei meccanismi che poi non so se poi riusciremo a gestirli, potrebbe porre un freno alla disumanizzazione dilagante. Io me lo augurerei e penso forse che Grossi sarebbe d’accordo. Un altro aspetto che forse avete sentito: Grossi non ha mai fatto il grande artista. Lui è sempre stato “al servizio”: non gli interessava che qualcuno dicesse “Ah, ecco Grossi!!”. Gli interessava predisporre degli strumenti e delle procedure che altri potessero usare. All’interno di una delle prime serie di Vita Musicale Contemporanea veniva presentata anche musica elettronica di Grossi. Però queste opere non riportavano il nome di Grossi, ma XY. Tutto ciò per far capire il suo rifiuto di mettersi in primo piano. Il che, appunto, come avete sentito, non gli è stato di grande aiuto quando si trattava di trattare con i “potenti”. Lui era uno che non si metteva mai in mostra. Quando si presentava, le personalità importanti si chiedevano: “Ma chi è”? Invece uno come Berio, che era abilissimo in ciò, è tutto un altro discorso: era conosciuto dai “potenti”, dagli amministratori. Ecco, questa è una lezione dal punto di vista umano, non artistico. Dire che un’opera d’arte individuale è meno importante di un progresso, di uno sviluppo di cose a cui tutti, se vogliono, possono partecipare.
Questo porta all’aspetto della distruzione dell’ego del compositore, che Grossi ha perseguito in maniera molto radicale ma anche molto riflettuta. Per esempio, già in questa idea del work in progress, di cui tu [si rivolge all’intervistatore, nda] ci racconterai degli sviluppi più recenti, nei primi anni ’60, se seguiamo le idee, anche di sinistra radicale, che c’erano all’epoca, l’artista, il musicista pensava sempre: “Sono io! Quest’opera è roba mia [l’intervistato si atteggia a finto borioso, nda]”. Grossi invece pensava: “No, io ti mando il materiale, tu ci fai quello che vuoi e tu mandaci il tuo materiale e ci facciamo quello che vogliamo e lo chiamiamo in un modo che non so”. Questa fu giudicata una cosa del tutto inopportuna, forse anche ridicola al tempo. Oggi chiaramente è diverso. Voi [si rivolge agli intervistatori nda], siete abituati ad altri mezzi. Provate a pensare: uno confeziona il nastro, lo mette in una scatola, va alla posta e lo spedisce. Oggi farebbe un po’ ridere. Comunque allora era così. Insomma, qualche nastro è arrivato così in studio quando lavoravo lì. Ora, con Marco [Ligabue nda] non ci ho parlato, quindi non so se la nastroteca di Grossi è stata digitalizzata. Comunque, tornando a noi, questa di Grossi è stata una lezione dal punto di vista umano ma anche artistico che andrebbe considerata di più.
GM: In quegli anni fu pubblicato quel famoso saggio di Roland Barthes, La morte dell’autore, quindi esistevano anche altri campi in cui queste tendenze verso la distruzione della figura dell’artista come individuo venivano pensate.
AM: Sì, certo. Nell’aria c’era questa tendenza. Questa tuttavia era una teoria. Nella pratica in pochi hanno fatto questa cosa, tra cui Grossi. Poi, ricollegandoci a La morte dell’autore, anche Opera Aperta di Eco porta in questa direzione. Io autore ti faccio qualche sgorbio e te devi suonarlo. Chi è l’autore?
LS: Per quanto riguarda quest’idea di condivisione, ci possiamo ricollegare anche alla attività di Grossi come curatore di Vita Musicale Contemporanea?
AM: Ma sì, certo. Come abbiamo detto prima, Grossi ha cercato di aiutare, di far conoscere, di far discutere delle cose e su questo ha sempre lavorato con estrema generosità. Poi lui aveva contatti con la RAI, aveva contatti con la stampa. La RAI soprattutto l’ha aiutato a metter su queste cose, forse con qualcun altro questo non l’avrebbe fatto. Aveva l’idea di non escludere cose dal discorso di presentazione.
GM: Grossi fu uno dei primi a portare opere di Cage in Italia, mi sembra…
LS: Eh sì, esatto! L’ha portato proprio qua.
GM: Mi sembra che organizzò una giornata intera dedicata a Cage.
AM: Può darsi. 1964 o 1974? [1964, nda]
GM: No, io dicevo con Vita Musicale Contemporanea.
AM: Forse fu in un anno in cui io ero a Berlino, o che non c’ero per qualche altro motivo. Non l’ho vista proprio tutta l’attività.
LS: Chi chiamava Grossi a far eseguire le opere durante queste stagioni?
AM: C’erano molti musicisti. Sia musicisti amatoriali sia alcuni di spicco. Per esempio un musicista molto famoso, di cui purtroppo adesso mi sfugge il nome, ha eseguito la serata dedicata a Skrjabin. Poi si appoggiava molto ai musicisti locali. C’era molta gente anche brava. Per esempio, c’è stato Arrigo Benvenuti che poi ha costituito anche il suo ensemble per eseguire alcune sue musiche durante le serate. Mi ricordo di un pezzo intitolato Follie. Essendo dentro il mondo musicale, conosceva un po’ tutti. Conosceva persone nel conservatorio, aveva molti allievi, anche bravi. Una volta ha chiamato anche me a suonare l’harmonium in un pezzo di Schoenberg, dove steccai malamente. Tuttavia è un pezzo difficile, molto difficile. E per fortuna nessuno se ne accorse. Comunque, lui non aveva problemi a trovare a chi rifilare questi concerti!
img: Albert Mayr © 2017 Luisa Santacesaria
Composizione n. 12 è tratta da:
Pietro Grossi “Bit Art” CD
Live Recording at Sala da Ballo del Fiorino,
Galleria d’Arte Moderna, Palazzo Pitti,
Florence 9 October 2010
Recording and Mastering: Mauro Forte,
Tommaso Leonetti, Francesco Baldi
Artistic Director: Daniele Lombardi
2010 Fondazione ATOPOS
Si ringrazia la Fondazione Atopos (www.atoposmusic.com).
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