di Giorgio Sancristoforo*
Qualche giorno fa mi trovavo in un’accademia di belle arti a tenere un ciclo di seminari dedicati alle nuove tecnologie nel suono. L’accademia d’arte è un’esperienza insolita per me, perché da sedici anni insegno a tecnici del suono, produttori, DJ e musicisti, materie molto specializzate come programmazione, sintesi e sound design. È raro per me trovarmi a contatto con giovani che non hanno la musica al centro delle loro passioni e del loro percorso di studi e non è affatto semplice parlare di certe tecnologie a studenti che non si sono mai dovuti porre il problema di cosa sia uno spettro, la dinamica di un segnale o gli effetti di una modulazione di frequenza.
Mentre sedevo in treno meditavo su quanto avrei dovuto levigare le parole, quanto avrei dovuto semplificare all’osso anche i più semplici concetti di generazione ed elaborazione del suono, per poter rendere comprensibile almeno una fetta delle possibilità che la nostra epoca ci offre.
Il mio piano era abbastanza semplice. Il seminario era decisamente lungo: 32 ore suddivise in tre giorni. Sarei quindi potuto partire con una panoramica della musica del Novecento, sottolineando come la tecnologia avesse radicalmente modificato il nostro modo di fare e ascoltare la musica. Avrei dimostrato come il grammofono e la radio avessero dato vita non solo a nuove forme musicali, a nuove estetiche, ma parallelamente anche a un nuovo tipo di pubblico, che per la prima volta poteva godere dell’esperienza della musica – qualsiasi musica, di qualsiasi paese – dalla poltrona di casa. Ogni nuovo media – commentavo – è una nuova occasione per artisti e pubblico di vedere le cose da una differente prospettiva, di allargare gli orizzonti dell’arte e fare evolvere i linguaggi.
Così come il nastro magnetico e la radiofonia nelle mani dei compositori ci hanno portato la musica elettroacustica e la sperimentazione, l’amplificatore e il quarantacique giri ci hanno donato il rock’n’roll, il pop, il funk, il reggae, il punk, il metal, la disco e infine, con l’arrivo di sintetizzatori e drum machines, il synth pop, la dance e tutta la cultura club e rave della moderna musica elettronica di massa.
Arrivato ai tardi anni ’90 e i computer portatili, potevo finalmente raccontare come la tecnologia si fosse evoluta al punto di migrare lo studio di registrazione nelle case dei musicisti. All’epoca i giornalisti musicali la chiamarono bedroom music o laptop music. Era un periodo molto eccitante. Si parlava di “democratizzazione della musica”. Ancora non immaginavo quanto sarebbe stata democratica e livellante questa rivoluzione.
Feci quindi ascoltare una rara registrazione: la voce di Luciano Berio all’IRCAM di Parigi, catturata da un caro amico nel 1980, durante un seminario a cui partecipava anche un giovanissimo Ludovico Einaudi, ancora studente imberbe. Berio cercava di spiegare le difficoltà e le limitazioni delle tecniche degli anni ’50 indugiando a tratti in teneri ricordi della sua esperienza con Maderna nello studio di Corso Sempione, poi seguiva qualche non del tutto lusinghiera parola sul sintetizzatore e infine con un improvviso afflato capace di infondere stupore e ammirazione, si lanciava nel decantare le lodi del processore 4X di Giuseppe Di Giugno, che “pensate, è in grado di compiere un milione di operazioni al secondo!”.
Quando il file audio si concluse, osservai i ragazzi difronte a me.
Avevano praticamente tutti un computer portatile acceso davanti ai loro occhi e dissi:
– I vostri computer sono in grado di fare almeno due miliardi di operazioni al secondo, cioè sono almeno duemila volte più potenti dei grossi mainframe del centro di calcolo più avanzato al mondo per la musica elettronica di trent’anni fa.
I loro volti esprimevano curiosità.
Dopo l’introduzione storica, decisi che era giunto il momento di fare sentire un po’ di magia. Ad esempio, come trasformare il suono di una mano che gioca con l’acqua in una bacinella, nel suono di un grande fiume in piena, o come creare il suono di un incendio registrando qualche rametto di legno spezzato, passando il tutto attraverso un buon algoritmo di sintesi granulare. L’effetto naturalmente affascinava i ragazzi che ascoltavano a bocca aperta, ma il picco di entusiasmo ci fu quando tirai fuori dalla borsa un paio di pickup telefonici e feci sentire le interferenze elettromagnetiche che il mio computer portatile generava, catturandole passando i piccoli strumenti a pochi centimetri dalla mia tastiera. Il rumore era cangiante e organico, ricco di transienti inaspettati e cascate di zaaaaap e huuuuuummmm…
Una cosa molto semplice, ingenuamente bella, ma di grande effetto.
Durante la pausa pranzo una studentessa si avvicinò e mi chiese dove poteva acquistare il pickup.
La guardai e le chiesi: – Fai musica?
– No, ma mi piace quello che ha fatto, professore – fu la risposta.
Ne arrivarono altri, con la stessa identica domanda e la stesse identiche risposte.
Ricominciai allora la lezione con una curiosità. Quale musica ascoltano questi ragazzi e come?
La risposta fu praticamente unanime: un po’ di tutto e da internet! Che domande!
Quando domandai se pagavano la musica, tutti guardarono il pavimento o il soffitto e timidamente mi risposero di no. Nessuno di loro aveva mai comprato un disco, un CD e men che meno un mp3.
La musica, per questi ragazzi, arriva dall’etere, gratis come l’aria. E definire il loro artista preferito è un compito quasi impossibile. Si ascolta un po’ di tutto, spesso come sottofondo a qualche altra attività, ma soprattutto non si comprano mp3 o i “vecchi” CD.
Io, dentro di me, onestamente, morivo un po’.
Tornando a casa con il solito treno, mi chiedevo come fosse possibile che nessuno di loro fosse disposto a dare un singolo euro per il disco di un artista, e al tempo stesso molti avessero espresso il desiderio di spendere una ventina di euro in un pickup.
Mentre la mia generazione bruciava tutto lo stipendio in vinili, questa trova la musica sugli alberi della rete e non è poi così interessata ai tanti, troppi, prodotti discografici che ogni giorno affollano Soundcloud, Bandcamp, Spotify, o Youtube e le piccole tirature in vinile o cassetta mi sono sembrate ancora più piccole. Siamo sommersi di dischi che nessuno, o quasi, vuole ascoltare.
No, questi ragazzi sono piuttosto interessati a un pickup. Quello sì, vale la pena di spendere qualche euro, e così, mi sono venuti in mente il Superbooth, il NAMM, il Frankfurt Musikmesse.
Ciò che per la mia generazione era il Monsters of Rock, oggi è il Messe, le grandi fiere di strumenti musicali, in cui la parte delle star è affidata a gente come Anthony Rolando di Make Noise, il compianto Don Buchla, o i brillanti berlinesi di Koma Elektronik. Stormi di giovani e meno giovani fanno la fila per provare la novità: il modulino del momento, il sequencer che esaudirà tutti i loro sogni, il pedalino definitivo. Se ne è accorto pure Forbes che parla di mercato in inarrestabile ascesa. E poco importa se sia un revival di tecnologia anni ’70 o piccoli gizmo digitali, ciò che importa è che tutti, ma proprio tutti, vogliono mettere le mani su cavi, potenziometri, e generatori di suono delle più svariate forme e misure. L’ascoltatore di musica elettronica sta scomparendo e così il mercato discografico della musica elettronica. Non è una cosa brutta come sembra, è solo una trasformazione.
Nell’overdose di offerta musicale di oggi c’è un problema e la risposta a quel problema.
Al posto del vecchio pubblico che comprava dischi c’è un nuovo tipo di pubblico, un nuovo tipo di fans disposti a spendere per la musica, disposti a viaggiare centinaia di chilometri per l’Europa o addirittura attraversare l’oceano, e non lo fanno più per David Bowie, ma per un generatore di rumori. Non è nemmeno una questione per soli “musicisti”. Anche chi non ha mai pensato di fare musica si sente irresistibilmente attratto dall’idea di poter creare un suo personalissimo universo sonoro.
John Cage sta sorridendo da lassù. Lo strumento musicale elettronico è il medium musicale del XXI secolo, ha preso il posto del vecchio album. L’ascoltatore è diventato ascoltatore-attivo. Non fa esperienza della musica e del suono in maniera passiva. Lo vuole invece controllare, vuole essere parte integrante del processo. Quando monta il suo modulare, sta facendo quello che noi facevamo con i mix-tapes negli anni ’80 e ’90.
Di passività, d’altro canto, ce n’è abbastanza quando si va a ballare nei club, in cui meccanismi quasi pavloviani intervengono puntualmente quando il DJ crea un crescendo esplosivo dopo l’immancabile “svuotone” al centro della traccia. I ragazzi reagiscono come attivati da un telecomando. Ma a casa la faccenda è diversa, la musica, o se preferite, il suono, diventa un’attività, un momento del fare.
Quindici anni fa pensavo che un giorno la musica sarebbe stata tutta generativa, pensavo che si sarebbe composta da sola davanti all’ascoltatore, perché in fondo l’mp3 e il CD non erano altro che il relitto di un’idea del tardo Ottocento e l’informatica avrebbe prima o poi cambiato questo paradigma lineare. Il disco, “la musica in conserva”, come la chiamava Brian Eno, era destinato a scomparire sostituito da algoritmi.
Non è andata esattamente così, anche se gente come Eno, Bjork e Thom Yorke ci ha provato.
Ma su una cosa avevo ragione: che l’esperienza dell’ascolto e quindi il medium doveva necessariamente mutare da un supporto immobile e immutabile a uno mobile e permutabile, solo non avevo considerato il desiderio irresistibile di questa generazione di entrare nell’equazione.
Uno spirito punk 2.0, se vogliamo. Poco importa se uno sa suonare o no. Se sa “spippolare” o se è un navigato sintesista. L’importante è fare. Agire sul suono, controllarlo, esplorarlo, e trovare il modo di attivare un processo automatico e star lì, a contemplare per un po’ la propria creazione, filmarla su youtube o facebook e poi disfarla come un mandala tibetano e ri-iniziare tutto daccapo. Al business della musica registrata si sta sostituendo il business della musica possibile, dell’Opera Aperta. Ecce Homo Modularis, l’ascoltatore-attivo!
Questa cosa farà arrabbiare un sacco di gente che ritiene ancora che l’artista sia una figura speciale, una forma di eletto che ha qualcosa di importante e unico da comunicare.
Molti di questi ascoltatori-attivi, penseranno che c’è una differenza sostanziale fra un autore della Warp Records e un ragazzo chiuso nella sua stanza a smanettare col modulare. Ad ascoltare le moderne produzioni però, la differenza fra il primo e il secondo sta nel fatto che il primo ha un ufficio marketing e il secondo no. Perché né l’artista blasonato né il ragazzino stanno innovando, (e l’innovazione è lo spirito autentico che ha generato la musica elettronica), chi è artefice della novità allora è il designer che ha progettato i mezzi che permettono ad altri di esprimersi. Sono i designers di strumenti, perdonatemi l’ovvietà, i deus ex machina, gli artisti di oggi.
Stockhausen affermava che la musica elettronica era diversa da tutte le altre. Nella musica elettronica la tecnologia gioca un ruolo fondamentale, non è semplicemente un mezzo.
Sono dunque i vari Make Noise, Cwejman, e Koma che hanno preso il posto di Stockhausen, loro inventano nuovi paradigmi e da loro dipende questa nuova musica che non ha un nome ne una forma, che non è nemmeno catalogabile in un “genere”, perché può includerli tutti e nessuno, dalla House alla IDM, dalla Sperimentale alla Trap al Noise.
Il pubblico del XXI secolo non è più passivo, non deve nemmeno subire il fascino di una star, non ne ha più bisogno, anche se per lungo tempo lo star-system cercherà di stare a galla, sempre più chiuso nell’idea di possedere qualcosa che altri non hanno, per poter vendere un prodotto.
Ma il vero prodotto musicale di cui c’è richiesta oggi è lo strumento musicale elettronico, non il disco. Ancora una volta McLuhan aveva visto bene: il medium è il messaggio.
No, non facciamo paragoni con la pittura. Un tubetto di colore non sarà mai un’opera di ingegneria, conoscenza e passione come uno strumento musicale elettronico. C’è dell’Arte nel progettare strumenti visionari come la serie 200e Buchla o il nuovo Field Kit Koma, che ha lanciato qualche mese fa un Kickstarter con un goal di 20.000 euro e ne ha raccolti 299.000.
Non sono grandi industrie, non hanno uffici marketing e sedi internazionali. Sono piccoli laboratori e tutto funziona sul passaparola sui social.
Nella musica elettronica, il disco, la musica registrata è in estinzione, quell’epoca è finita.
Questa è l’era del pubblico-artista, dell’ascoltatore-attivo.
D’accordo, il talento e lo studio non sono acqua, ma di talento è pieno il mondo, e il mondo è decisamente cambiato.
*Giorgio Sancristoforo (Milano, 1974) è sound artist e ingegnere del suono. È membro del centro di musica contemporanea AGON di Milano, dove si occupa di musica sperimentale e installazioni. Insegna sintesi del suono e sound design al SAE Institute e dirige il Reihe Laptop Ensemble di Milano. Nel 2007 ha pubblicato con Isbnedizioni “TechStuff, manuale video di musica elettronica” e nel 2010 con Postmedia Books “Audioscan Milano, il suono della città”. Ha sviluppato numerosi software per la musica sperimentale, utilizzate da artisti e università in 40 paesi nel mondo fra cui BBC Radio phonic Workshop (UK), CCRMA – Stanford (USA), CENART – Mexico City (MEX), Royal College of Music – Stockholm (SE), Tufts University – Medson (USA), Berklee College – Boston (USA).”
Fra i teatri e le istituzioni che hanno ospitato le sue performance e installazioni:
Palazzo Reale – Milano, Shanghai Expo 2010, Teatro Valle – Reggio Emilia, Piccolo Teatro Studio – Milano, Teatro Arena del Sole – Bologna, EUR – Roma, Museo della Scienza e della Tecnologia – Milano, Onedotzero (UK), NEMO (France), IDAP (China), IDAP (Japan), Le Cube (France), Lovebytes (UK), Accademia Filarmonia Romana – Roma, Centro Tempo Reale – Firenze, Teatro Out Off – Milano, Centro National de las Artes – San Luis Potosì (Mexico), Rivolì 59 – Paris, IRCAM Centre Pompidou Paris.
img: © Giorgio Sancristoforo
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