di Marco Baldini e Luisa Santacesaria
Stefano De Ponti (www.stefanodeponti.it) è sound artist, artista intermediale e docente di Arte e Immagine. A partire dal 2019 ha avviato un processo di ricerca dal titolo “La natura delle cose ama celarsi” che ha ricevuto il sostegno di NUB Project Space (progetto Licheni), Tempo Reale (Programma di Residenze KATE), Radio Papesse, Cava Nardini e Les FAC. Abbiamo incontrato Stefano De Ponti e fatto una lunga chiacchierata, cercando di tirare le fila di questo ampio e complesso percorso artistico in costante divenire, che in questi tre anni si è articolato in diversi atti o “approdi” raccolti in una ricca pubblicazione cartacea (con elementi lapidei) rilasciata dalla piattaforma multidisciplinare Archive Officielle.
La pietra serena è l’elemento alla base de La natura delle cose ama celarsi, nonché il suo punto di partenza. Qual è la tua connessione con questo materiale?
STEFANO DE PONTI. In principio è stato il colore, di cui mi sono accorto per una questione puramente territoriale, da quando circa cinque anni fa ho deciso di vivere stabilmente in Toscana, un trasferimento che ha coinciso con il profondo desiderio di attuare un rinnovamento della mia pratica artistica. Sentivo una forte esigenza di vuoto e così sono ripartito dai rudimenti, “da un foglio e una matita”, e ho fatto una sorta di tabula rasa mettendomi in ascolto dei segni offerti dal territorio, senza l’urgenza di dover produrre alcunché, in attesa. Un giorno mi sono accorto di come la Pietra Serena si trovasse ovunque intorno, a partire dal mio studio, nei contesti urbani e tra le colline vicino casa.
Ho iniziato così a interrogarmi oziosamente sulle proprietà di questo materiale e sul suo nome, trovando una leggenda che racconta di come dall’interno di un macigno di Pietra Serena, se tagliato a una certa inclinazione, in un preciso momento di una giornata assolata, si possa sprigionare un colore terso che tende dopo poco a scomparire.
Una sorta di fuoco fatuo.
Anche se non è altro che l’ossidazione dovuta all’esposizione all’aria! Ad ogni modo è stata una visione che mi ha suggestionato, a cui si è aggiunta una forte relazione con il frammento 123 di Eraclito che mi risuonava in testa da tempo: “La natura delle cose ha l’abitudine di nascondere sé stessa”. Trovando il tutto molto evocativo e coerente con la mia necessità di cambiamento mi sono lasciato guidare dalle intuizioni e ho iniziato a seguire le tracce di un percorso che si sarebbe rivelato ampio e profondo, mi verrebbe da dire abissale…
Nel dicembre 2019 hai presentato per il Tempo Reale Festival uno studio di quello che sarebbe poi diventato il secondo approdo del tuo percorso, ossia Relazione minima.
Vero, all’epoca si chiamava ancora Malgrado col tempo si sfaldi, titolo che prendeva spunto da una descrizione ricorrente del materiale oggetto della mia indagine. Ripensandoci oggi trovo che già in quella breve composizione ci fosse in nuce una tensione verso la pura evocazione, un desiderio di annullamento Avevo da poco iniziato a frequentare la Cava Nardini di Vellano, situata a pochi chilometri da dove abito e ultima sul territorio ad essere rimasta attiva. I proprietari Germano e Marco, rispettivamente padre e figlio ed entrambi scalpellini, e lo scultore Silvio Viola, mi hanno accolto con grande entusiasmo e apertura. Per diverse mattine ho semplicemente passeggiato, osservato e ascoltato il luogo, trovandolo evocativo e stimolante. Ho interagito con le persone che lo abitavano senza scopi precisi, ma stabilendo relazioni umane e artistiche. Chiacchieravo, esploravo, raccoglievo, registravo e immaginavo. La Pietra Serena è un’arenaria fredda, pesante e leggera al tempo stesso, compatta ma ricca di sfumature, solida eppure fragile, antica, formatasi in lenti processi millenari di aggregazione, di strati che si sono sovrapposti, mischiati. Ho iniziato così a impostare un approccio ecologico alla creazione, nel suo significato più ampio ed esteso.
Immaginiamo che la pietra serena abbia delle qualità che te l’hanno fatta scegliere. Forse è molto facile da lavorare, infatti ne vediamo tantissima a Firenze: nei gradoni, nelle panchine fuori dai palazzi, nelle scale, nelle ville medicee.
Spesso consumata dagli agenti atmosferici o da eventuali urti, perché, appunto, è una pietra relativamente facile da lavorare ma che altrettanto facilmente si sfalda. Oltre al colore è questa fragilità ad attrarmi, soprattutto se contrapposta all’uso massiccio che ne è stato fatto nei secoli.
In questa tua ricerca è molto presente il concetto di impermanenza. Vuoi parlarcene meglio, magari facendo riferimento ai Transient Mobiles, quarto, e a oggi, ultimo approdo di questo tuo percorso?
Volevo che il fine principale non fosse (o almeno non solo) un prodotto, ma l’innesco di un’intenzione, di un’esperienza nell’utente finale e che al tempo stesso attivasse in me un cambiamento, una trasformazione della mia modalità di lavoro.
Qualche tempo dopo il live al Tempo Reale Festival ho avuto la visione dei Transient Mobiles, anzi, più precisamente l’immagine di una possibile attitudine gestuale nei confronti di quello che sarebbe diventato in seguito il dispositivo. Ho così iniziato a ragionare sulla possibilità di portare un potenziale destinatario verso un approccio consapevole al contenuto sonoro, veicolato da un dispositivo che gli concedesse un’unica possibilità di ascolto, impedendo qualsiasi tipo di conservazione o duplicazione. Un contenuto effimero, affidato alle intenzioni di chi lo avrebbe ricevuto e di cui nemmeno io avrei conservato una copia, in radicale opposizione alle dinamiche di fruizione e accumulo contemporanee. Questa visione ha coinciso con il ricordo di quando nel 2003 collaborai all’allestimento di una retrospettiva su Laurie Anderson al PAC di Milano. In quell’occasione ebbi l’opportunità di scoprire e provare l’Handphone Table, un’installazione datata 1978 che mi colpì moltissimo. Una delle peculiarità di quest’opera è la fruizione del suono per conduzione ossea. Ripensando a quell’esperienza ho immaginato che il corpo, utilizzato come cassa di risonanza ed elemento di mediazione, non solo risolvesse la questione della riproducibilità, ma aprisse anche ad altre profonde e puntuali riflessioni.
Quindi possiamo dire che l’idea scatenante di questo approdo sia stato l’Handphone Table?
Di sicuro ha avuto un ruolo cruciale, ma più che fornire l’idea mi ha suggerito una soluzione per la fruizione che avrebbe impedito qualsiasi possibilità di duplicazione del contenuto. La differenza di fruizione tra l’Handphone Table e i Transient Mobiles risiede principalmente nella portabilità del secondo e nel suo essere monofonico, requisiti imprescindibili volendo lasciare al fruitore la scelta del luogo di ascolto, mantenendo un dialogo aperto con l’ambiente circostante, e suggerendo inoltre una posizione contemplativa e ricettiva agli stimoli esterni.
Se tu volessi guidarci attraverso tutti gli output che hanno attraversato questo progetto, se volessi ripercorrerli oggi con noi, cosa ci diresti?
Quelli finora rilasciati sono stati atti che si sono autodeterminati sia nel numero che nelle modalità di fruizione, seguendo un ordine di senso, di rivelazione o di progressiva ri-scoperta e contestualizzazione.
Per questo considero approdi anche il podcast commissionato da Radio Papesse per Radia FM, con il quale cerco di evocare proprio questo progredire per disvelamenti, abbandoni, recuperi e trasformazioni (non a caso il titolo scelto è lo stesso usato per lo studio presentato al Tempo Reale Festival) e la pubblicazione con Archive Officielle, che pur confezionando un prodotto non chiude il progetto, ma anzi lo apre a nuove possibilità di rilancio.
Dal punto di vista della ricezione dell’opera, abbiamo notato però che c’è una differenza sostanziale tra gli approdi Relazione Minima e Impermanenze e gli altri, Cimento e Transient Mobiles. I primi due li hai presentati come delle vere e proprie performance, dove tu mantieni un controllo sul risultato sia visivo che sonoro dell’opera. Tu sai, quando stai presentando quei due lavori, che il processo che stai attivando sta avendo un determinato risultato, che state ascoltando sia tu sia chi è con te – chiamiamolo “pubblico”, chiamiamolo “altro da te” – nello stesso momento, per il tempo che decidi tu. Invece negli altri due approdi questo non succede, perché lasci all’ascoltatore la libertà di fare un’esperienza della tua opera personale, intima. Insomma, di fruire di un risultato sonoro che tu non potrai mai percepire allo stesso modo, mai controllare. Come hai ragionato su questi aspetti?
Dopo aver messo a fuoco l’idea dei Transient Mobiles ho capito che sarei dovuto tornare sui miei passi e impostare il percorso di ricerca con una modalità più metodica e ragionata, mantenendo al tempo stesso una forte apertura verso relazioni e confronti anche apparentemente distanti, per estendere ulteriormente l’immaginario e le possibilità espressive, correndo anche il rischio di perdermi. Il progetto / piattaforma Licheni di NUB Project Space è stata la cornice ideale per contenere questa deriva e organizzare costruttivamente i contenuti aiutandomi ad individuare una direzione convincente. Per giungere a quell’abbandono immaginato con i Transient Mobiles, sono passato attraverso un lento e vasto accumulo, compiendo un giro largo fatto di restituzioni intermedie e confronti.
Per esempio, il primo oggetto sonoro in pietra serena che ho costruito e utilizzato nel live al Tempo Reale Festival, ha trovato compimento solo a percorso avviato come secondo approdo con il titolo Relazione Minima. In questo caso il risultato sonoro, volutamente scarno, minimo, era generato da un semplice innesco tra un microfono e uno speaker (appositamente costruiti e posti a distanze diverse all’interno di una roccia tagliata in due parti), messo in relazione con una serie di suoni ambientali raccolti alla cava. Insegue la visione di un semplice sasso anonimo, che aprendosi rivela una qualità sonora.
Ho poi utilizzato la polvere prodotta durante la lavorazione sia come pigmento naturale, che per la costruzione di clessidre a durata casuale. Da queste trasformazioni e impieghi nasce l’idea di Impermanenze, performance a durata variabile e prima restituzione in ordine di tempo, in cui la polvere di pietra viene disposta con un chak-pur (strumento usato nei mandala tibetani) su un telaio di carta velina, nel tentativo di inseguire la forma casuale generata da un pezzo di nastro magnetico gettato precedentemente sulla superficie, osservato per un “tempo bastante” e successivamente bruciato. I nastri qui utilizzati contengono registrazioni realizzate in passato e delle quali non possiedo nessun duplicato. Trasformati per combustione e rievocati attraverso il gesto, rinascono nella traccia visiva che si forma durante l’azione performativa e che termina al rilascio dell’ultimo granello di sabbia. Dopo una contemplazione condivisa del risultato, disperdo con un soffio il segno creato, raccolgo la polvere rimasta sulla tela e la unisco ai residui di nastro bruciato, facendone dono ai presenti. Chi era presente al NUB Project Space e a Les FAC ne ha parlato come di una cerimonia. L’azione performativa era accompagnata e influenzata nel suo incedere da una selezione di suoni e field recordings raccolti in un tempo precedente e organizzati secondo logiche compositive che cerco di abbandonare proprio attraverso l’atto performativo stesso.
Invece è stato rileggendo La tana di Kafka che ha preso forma Cimento:
“E avrei voglia di congedarmi da tutto, di discendere nella tana e di non tornare su mai più,
di lasciare che le cose seguano il loro corso senza ostacolarle con inutili osservazioni.
Ma neppure adesso, che la mia vita è al culmine, conosco un momento di tranquillità piena”
Con Cimento ho voluto ribaltare il punto di vista. Dopo più di due anni trascorsi ad ascoltare la pietra, ho pensato di entrarci dentro per lasciare che fosse lei ad ascoltarmi. Anche questa in realtà è stata un’opera presentata in forma di performance, prima a porte chiuse alla Cava Nardini e poi al NUB Project Space aprendola al pubblico. A differenza delle precedenti però, Cimento prevede la presenza di un altro musicista al mixer (che in queste due occasioni è sempre stato Francesco Frosini) per gestire i feedback innescati dal mio respiro e riorganizzarli nello spazio. Il controllo finale, seppur generato da uno scambio, non era più in mano mia.
Il suono è un’esperienza che facciamo in solitaria, totalmente individuale e anche impalpabile. Mi ha sempre interessato quando uno si immagina il suono di una cosa e poi lo sente. A volte è diverso e a volte simile a quello che si è immaginato.
Ho sempre pensato che sia fondamentale aumentare il coinvolgimento e la partecipazione del destinatario evocando senza dichiarare. Portare alla soglia e lasciare il compito a chi partecipa di completare l’opera con il suo bagaglio personale di esperienze. I due prototipi di Transient Mobiles presentati lo scorso dicembre alla Galleria Frittelli di Firenze avevano un limite strutturale evidente: il volume del contenuto risultava troppo percepibile all’esterno e molto poco attraverso il corpo di chi lo usava. Altre volte invece non si sentiva quasi per niente. Eppure ciò che sembrava essere un difetto si è rivelato un punto di forza…
Cioè?
Qualcuno è riuscito a sentire qualcosa, altri hanno fatto un’esperienza completa, altri ancora hanno sentito appena, certi proprio nulla e alcuni se lo sono inventato, ma tutti tornavano… chi per essere sicuro, chi per ritrovare il suono udito e subito perso, chi per convincersi di sentire qualcosa per poi parlarne e raccontare l’esperienza… Ed ecco l’intenzione che cercavo, l’esperienza al di là del prodotto, del risultato, del suono stesso presente o meno nella pietra. Quelle persone sono state in ascolto, o meglio, sono state, consapevolmente.
Si è trattato quasi di un gesto politico…
Togliere, e poi togliere, e togliere ancora. Registrare il nulla, ma che tutti capiscano che l’ho registrato io.
E dopo togliere anche l’io. Immagino questi artefatti anonimi ritrovati in un giorno qualsiasi di un futuro ipotetico, ormai obsoleti ma misteriosi ed evocativi… Penso che potrei non mettere alcun suono all’interno e ci convinceremmo lo stesso di sentire qualcosa… fosse anche solo per voler dare ragione a John Cage!
Disegni © Stefano De Ponti
Fotografie © Andrea Berti
Banner © Stefano De Ponti, Cava Nardini – visioni, 2019 – 22
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