di Marco Baldini, Luisa Santacesaria e Giulia Sarno
Iniziamo parlando un po’ dell’Acousmonium. Potrebbe raccontarci la genesi di questo sistema, e a quali esigenze andava incontro?
FB: Ci sono molti livelli in questa domanda. Forse bisogna cominciare dall’inizio. Il 1968 è una cesura, c’è un prima e un dopo. Prima la musica elettronica, concreta, con gli altoparlanti, era considerata un’arte di controcultura, sovversiva, eccitante, qualcosa di proibito e un po’ misterioso. C’era molto pubblico, molto interesse, e molta magia. Uno o due altoparlanti erano sufficienti per creare questa situazione. Nel 1968 c’è stata l’esplosione della libertà, della rivendicazione, per cestinare il vecchio mondo… Alla metà del XX secolo la seconda guerra mondiale aveva rappresentato un momento di svolta, era emersa una nuova generazione che voleva la libertà e voleva buttare via i vecchi padroni, e tutti volevano essere indipendenti, liberi, felici… A quel punto improvvisamente la musica elettronica come controcultura non interessava più a nessuno. Facevamo dei concerti, sei mesi prima la sala era completamente piena, sei mesi dopo c’erano quattro persone. Perché la controcultura aveva vinto, e dunque non interessava più a nessuno, non c’era più magia, non c’era più desiderio di rompere, perché la battaglia era vinta. Dunque che si fa? Noi, i giovani compositori, che ponevamo tante aspettative in questa musica nuova, suonavamo in sale molto grandi dove il giorno prima c’era l’orchestra sinfonica che faceva un concerto, con la scena completamente riempita dagli interpreti: c’era molta gente tanto sulla scena quanto in sala. Allora mi venne da pensare che una situazione in cui c’era molta gente in sala ma soltanto due altoparlanti sulla scena non funzionava… capivo perché la gente non fosse interessata. Allora mi sono detto che bisognava arricchire, salire di livello, di complessità, di investigazione, di ricerca, anche nel senso proprio del suonare. Perché con due altoparlanti non c’è performance: si riproduce ciò che c’è sul nastro magnetico, in modo diretto, e basta. Allora con alcuni amici ho proposto di mettere tutti gli altoparlanti possibili e immaginabili: cinquanta, sessanta altoparlanti, che fossero tutti diversi, medi, grandi, piccoli, lontani, vicini… Creare una popolazione di altoparlanti. E a quel punto il pubblico si chiedeva meravigliato cosa fosse questa cosa… Io l’ho chiamato Acousmonium. Improvvisamente il pubblico è tornato. E anche i compositori hanno avuto l’opportunità di ascoltare la propria musica in un altro modo. Questa è una prima spiegazione per la nascita dell’Acousmonium, ma ci sono molte prospettive per spiegare questo fenomeno. Questa è una spiegazione di carattere socioculturale. Prendiamone ora un’altra, una spiegazione di tipo stilistico-musicale, dal punto di vista del compositore. Bisogna ritornare all’origine della musica concreta. La musica concreta è la musica che è stata inventata a partire da un nuovo sistema mediatico, che è la nascita della radio. Possiamo spiegare la musica concreta in molti modi, ma il più realistico è spiegarla per mezzo della radiofonia come sistema di diffusione. La radiofonia è l’inversione della comunicazione normale in cui c’è qualcosa che è là che si rivolge a qualcuno che la riceve, con reciprocità. La radiofonia è qualcosa di diverso, è a senso unico. Si parte da uno studio: le persone che ascoltano sono isolate, ascoltano una scatola. Quello che esce dalla scatola è qualcosa di inedito, innanzitutto perché la persona che ascolta non è parte di una collettività, e poi perché ci troviamo vicini alla scatola, a distanza ravvicinata. Questo dà come risultato generale e immediato che la scatola non emetterà mai suoni troppo forti – non ne vale la pena perché si trova vicina – e al contrario sfrutterà l’intimità. La radiofonia lavora sul progetto della prossimità, e quando usa sonorità forti va a sfruttare anche l’allontanamento, per mezzo della camera dell’eco. L’arte radiofonica è nata così. La radiofonia è in primo luogo informazione, la trasmissione della cronaca a tutte le ore… I programmi dovevano essere continui: bisognava occupare la banda di frequenza, senza sosta, nemmeno per un secondo. Dunque per i direttori dei programmi il problema era riempire il palinsesto in modo tale che ci fosse sempre qualcosa. Allora, accanto all’informazione come primo elemento fondamentale, si inserirono altre cose per tappare i buchi: la musica. Poi, per interessare il pubblico, per il palinsesto di certe ore, si fece appello a nuove creatività: “Cosa potete fare con questo nuovo medium?”. Ed è così che è cominciata l’arte radiofonica: sono stati composti dei lavori speciali di teatro che sfruttavano la prossimità del microfono, gli effetti sonori, per creare un realismo immaginativo. E così Pierre Schaeffer, e a Milano Umberto Eco, Luciano Berio, Bruno Maderna, si sono messi a lavoro. Credo che sia stato Umberto Eco, che era il più anziano e il più colto, e che aveva incontrato per caso questi musicisti, a suggerire loro la possibilità di manipolare dei testi per la radio, opere di Joyce o di poeti un po’ oscuri, che utilizzavano strutture narrative strane, e con questo materiale giocare mescolando le voci… A Parigi, Pierre Schaeffer e il Club d’Essai, che era uno studio speciale, cominciarono a fare degli sperimenti radiofonici con degli scrittori e degli attori che avevano timbri di voce interessanti. E poi, soprattutto, per il realismo della narrazione, si faceva appello a dei piani sonori diversificati e a degli effetti sonori molto elaborati, che imitavano certi rumori per dar vita all’ambientazione, per conferire verosimiglianza alla storia, ma si trattava allo stesso tempo di una somiglianza molto immaginativa, vale a dire molto inverosimile: è una dialettica molto interessante quella tra verosimile e inverosimile, il punto di articolazione tra qualcosa che riconosciamo e che allo stesso tempo è totalmente strana, qualcosa che riconosciamo ma che non somiglia a nulla, e allora come facciamo a riconoscerla? Questa è la cosa interessante della stimolazione uditiva.
Si è arrivati poi al punto che la narrazione, la storia, si è ridotta, e gli effetti sonori hanno occupato tutto lo spazio: e questa è la nascita della musica concreta. La musica concreta è il rovesciamento di un processo narrativo-musicale che diventa musicale-narrativo, fino al punto di diventare totalmente musicale, senza più alcuna narrazione: solo un’organizzazione di forme dotate di dimensione, di rapporti di distanza, di movimento, e con un’autonomia completa. Non c’è più narrazione, rimane solo la musica, o meglio la “musica” tra virgolette, che è tale solo se si ha la volontà di apprendere questo nuovo linguaggio. Dunque questo è il percorso storico dell’apparizione della musica concreta come figlio naturale di un processo mediatico, ovvero della comunicazione radiofonica. La cosa sorprendente è che a quel tempo sono stati i musicisti professionisti, i compositori che avevano una formazione musicale precisa, che conoscevano bene la letteratura musicale, a interessarsi a questo fenomeno, anzitutto perché il compositore è un individuo con un orecchio più sviluppato degli altri, ma anche perché la musica era in crisi. La musica era in crisi da molto tempo: era cominciata alla fine del diciannovesimo secolo. Penso al Prélude à l’après-midi d’un faune di Debussy… È un periodo di grandi sperimentazioni e invenzioni, nella danza, nella fotografia, nel cinema con l’apparizione del sonoro… Poi il 1913 è l’anno in cui tutto cambia, con Le sacre du printemps e Jeux. Nella musica c’è l’emergere del rumore, con Varèse, e allo stesso tempo abbiamo composizioni di sole percussioni, poi le sperimentazioni di Cage e del suo maestro Henry Cowell, la loro musica “clownesca”, con l’invenzione del piano preparato. Questa è la crisi della musica nella prima metà del ventesimo secolo. Ma la musica non era l’unica arte a essere in crisi: la crisi si era già manifestata soprattutto nella pittura, con l’avvento della pittura non figurativa, astratta; ma anche nella scrittura, con Joyce, Proust, e l’idea di una narrazione totalmente non lineare. Quindi negli anni Cinquanta, quando si è sviluppato il fenomeno tecnico-artistico del microfono e degli altoparlanti con la trasmissione via etere, che cambia le modalità della comunicazione (che da collettiva diventa individuale e a domicilio), e l’avvento anche del disco e della registrazione… tutte queste cose sono di grande interesse per i musicisti perché nella crisi della musica c’è la ricerca di nuove unità sonore e di come poterle usare, come organizzarle. Queste rappresentano il mezzo per non essere condannati soltanto a una musica fatta di note. Si sviluppano così due strade per uscire da questa situazione restrittiva: la prima è l’abolizione della gerarchia tonale, Schoenberg, la dodecafonia; l’altra formula è l’abolizione della divisione dell’ottava in dodici semitoni e la ricerca di unità tonali più piccole, i pianoforti microtonali di Julián Carrillo, dunque la ricerca del continuum sonoro. Ma queste soluzioni non erano molto apprezzate dal pubblico, che aveva difficoltà ad apprezzarle. Eppure negli anni Cinquanta c’era una grande volontà da parte di tutta una schiera di musicisti di continuare sul cammino della musica seriale, con il serialismo integrale di Stockhausen, Boulez, e anche gente più “innocente” e con uno spirito più giocoso, come Berio e Maderna, gli italiani, più inclini allo scherzo dei tedeschi. E dunque è stato in questo contesto che improvvisamente è arrivato il medium elettroacustico, in cui si è vista subito una soluzione molto più divertente, e anche più facile, più immediata. Molto presto si sono sviluppate tre scuole che hanno avuto un grande successo: quella francese della musique concrète attorno a Pierre Schaeffer e Pierre Henry – quest’ultimo in particolare ha ricoperto un ruolo essenziale, aveva una straordinaria capacità di immaginazione, era il compositore più grande… Apro una parentesi. Ci sono state due grandi rivoluzioni nella musica contemporanea: quella rappresentata da Jeux, L’après-midi d’un faune e Le sacre du printemps, una soglia che segna un prima e un dopo, con la scoperta dell’”altro” musicale (l’oriente, il folklore russo…) e lo sviluppo di un’idea di musica globale, non universale perché non esiste una musica universale così come non esiste una lingua universale, ma aperta alle influenze e alle ibridazioni dei linguaggi musicali di tutto il mondo; la seconda grande rivoluzione è rappresentata dalla Symphonie pour un homme seul. A oggi, nel 2017, attendiamo la terza rivoluzione, ma non ne è ancora arrivata che sia comparabile a queste due: si tratta di qualcosa che, un secondo prima di ascoltarla, non eravamo capaci di immaginare, e che un giorno arriva come un meteorite squarciando l’atmosfera e che cade sul mondo lasciandoci senza parole, perché è qualcosa che evidentemente ha una forza straordinaria, comprensibile da tutti. Dopo queste soglie è necessario lavorare: la prima rivoluzione ha dato da lavorare a tutti i musicisti tradizionali, la seconda ha dato da lavorare a dei non-musicisti, e questa è la cosa interessante. La comunità musicale si è improvvisamente allargata perché per fare della musica elettronica o concreta non c’è bisogno di aver fatto dieci anni di solfeggio, di contrappunto eccetera. Improvvisamente la capacità musicale delle persone non era più strangolata da un prerequisito di costruzione mentale che scarta ed elegge soltanto le persone che sono dotate di una capacità combinatoria molto particolare. Non dico che questo approccio si sia estinto, anzi questo tipo di musica esisterà sempre perché si rifà a una capacità molto acuta di comprensione e percezione dei suoni. Ma è un bene che sia arrivata anche una musica più spontanea, come in tutte le epoche ci sono sempre stati degli stimoli che venivano dall’area del popolare, dalla musica da danza, quella dei villaggi rurali. La rivoluzione musicale che era partita all’inizio del XX secolo trova dunque un acceleratore formidabile con l’avvento del mezzo elettrico nella produzione, comunicazione e trasmissione del suono: produrre i suoni, registrare i suoni e proiettare i suoni, ascoltare dei suoni che escono da una scatola, sia in una sala sia nella propria casa… E così possiamo tornare all’Acousmonium da un altro punto di vista, in questo nuovo contesto. In quell’epoca c’erano degli studi, come Tempo Reale, dove la gente che lavorava aveva a disposizione due altoparlanti, la consolle, il magnetofono eccetera, e il compositore regolava le durate e le intensità in rapporto alla propria percezione, secondo una stima spontanea nella cornice dello studio, con gli altoparlanti a tre/quattro metri di distanza posizionati in maniera da formare un triangolo equilatero con la testa dell’ascoltatore… Ci sono due vie possibili. O si fa una musica che è tarata per questo sistema d’ascolto, per questa prossimità, questo intervallo preciso, e allora si tratta di una musica radiofonica, perché nella radiofonia il pubblico si troverà sempre in questa situazione di ascolto – è un mestiere, e bisogna essere coscienti che se non volete cambiare questa situazione di ascolto allora siete a lavoro specificamente per quel mezzo, e che lo vogliate o meno, in modo più o meno ragionato, avete preso quella posizione. Dall’altro lato però è diverso se siete dei compositori “tradizionali”, che compongono per un pubblico in sala dal vivo, che alla fine applaude, vale a dire uno scambio tra qualcosa che viene suonato e un uditorio che lo ascolta collettivamente e reagisce a esso. In questa situazione, ciò che è stato preparato in studio è necessario che venga ampliato, perché la sala da concerto è molto più grande di uno studio, ci sono ascoltatori in prima fila e ascoltatori nell’ultima, gente che si trova completamente a destra o completamente a sinistra, vicina agli altoparlanti o lontana da essi… Allora innanzitutto bisogna ampliare la proiezione della musica con un gran numero di altoparlanti, e poi bisogna suonarla questa musica, perché quando ci sono molti altoparlanti ma l’opera è monofonica o stereofonica con due canali di informazione (ma in realtà come sapete nella stereofonia si tratta di un’unica informazione che si sposta tra due canali, una monofonia in movimento), avete la possibilità, con una consolle, di scegliere come distribuire l’informazione che è originariamente regolata in studio nella sala, e dunque avere un’attività ulteriore rispetto alla composizione, un’attività di interpretazione, di elocuzione per chiarificare la complessità dell’opera, con una gestione inedita delle dinamiche (la possibilità di aumentare il fortissimo e diminuire il pianissimo rispetto al nastro) e dei piani spaziali. Questo lavoro ulteriore rispetto alla composizione penso che debba essere fatto dallo stesso compositore perché è lui che conosce meglio la sua musica, anche se attraverso questo processo il compositore scopre la propria musica perché spesso non ne conosce il potenziale. In questa nuova situazione il compositore può aumentare la propria musica in una maniera coerente, meglio di quanto lo possa fare qualcun altro che non conosce la composizione altrettanto bene. Dunque ci sono dei criteri di adattamento, di messa in scena, da stabilire in conformità con la natura dell’elocuzione. È necessario che un compositore operi una scelta tra essere un compositore radiofonico o uno che compone per un pubblico all’interno del formato concerto. Più di recente questo sistema si è evoluto perché adesso esistono anche altri contesti di esecuzione oltre al concerto, come per esempio le installazioni, vale a dire che la musica non viene composta per essere eseguita in una sala da concerto, a una certa ora, davanti a un certo pubblico abituale, che paga un biglietto, si siede sulle poltrone eccetera, ma piuttosto si tratta di musica che funziona in uno spazio per tutta la giornata, con il pubblico che cammina eccetera. Ci sono svariate possibilità che hanno a che fare più con la luce e la dimensione visiva che con la musica, rifacendosi a delle forme che permettono di sfruttare il volume dello spazio e le sue caratteristiche: i contesti plastici in cui si può installare sono molteplici. Ovviamente si tratta dello sviluppo di tutti i processi immaginativi che derivano dall’arte mediatica, ovvero dalla possibilità di proiettare il suono per mezzo di altoparlanti. Per riassumere, le due vie per spiegare la genesi dell’Acousmonium sono da un lato l’ampliamento e dall’altro la distinzione tra due forme d’arte, un’arte per la radio e un’arte per il pubblico.
Com’è cambiato il suo approccio alla composizione in rapporto all’evoluzione delle tecnologie?
È vero che l’accelerazione della tecnica è qualcosa di straordinario: pensiamo al fatto che nell’arco di una sola vita umana ora passiamo attraverso degli stadi che normalmente richiedono uno o due secoli. L’evoluzione della musica era molto lenta all’inizio e poi ha cominciato ad accelerare sempre più, e ora gli stili musicali durano una settimana. Io ero un ragazzo che non aveva ricevuto un’educazione scolastica perché sono della generazione cresciuta subito dopo la guerra, tutto era distrutto: personalmente ho tratto beneficio da questa distruzione perché non ho seguito un percorso normale, non ero andato alle elementari, ho fatto il liceo ma dopo il conservatorio non funzionava. In più sono nato in Madagascar, dall’altro lato del mondo, e sono arrivato in Europa dopo la guerra: è stato un caso, perché avrei potuto restare tutta la vita dall’altra parte della terra e vivere lì con gli insetti e i serpenti… [ride]. Il caso è stato una costante della mia vita. Forse questa è ciò che mi ha reso molto curioso e reattivo in modo spontaneo. Ho avuto la fortuna di arrivare a Parigi nel momento in cui Schaeffer cominciava a formare il secondo gruppo di ricerca. Anche Schaeffer era una persona piuttosto strana, era un ingegnere che non aveva mai pensato di fare musica e che è caduto un po’ per caso nel bel mezzo della radiodiffusione che ancora si trovava in uno stadio del tutto non strutturato, e visto che i suoi genitori erano dei musicisti anche lui aveva imparato un po’ a suonare il violoncello e aveva un buon orecchio. Immediatamente si è messo a riflettere sul suono e si è circondato di due o tre musicisti e in particolare ha incontrato Pierre Henry. La musica concreta è nata veramente da questo incontro straordinario. Ma Schaeffer non era a dire il vero l’uomo adatto per questo, era molto più interessato alle questioni relative ai media – qual è il ruolo della radio, il suo ruolo sociale o politico eccetera. Era un musicista ma non in modo esclusivo: per Schaeffer la musica era una piccola cosa dentro una grande cosa, ovvero la società – il modo di vivere dopo la seconda guerra mondiale, con l’apparizione di tutte le tecnologie, era questo che gli interessava. Era un uomo sociale, un filosofo dei mass media. Dunque eravamo agli inizi della musica concreta, e Schaeffer molto rapidamente se n’è allontanato. È partito per l’Africa per lavorare a un progetto di radiodiffusione nei paesi africani. Quando è tornato, era in conflitto con la musica concreta: non gli interessava perché si trattava ormai solo di processi sonori, elettronici… Lui era un musicista piuttosto classico, per quanto possa sembrare strano. Era moderatamente interessato alla musica moderna, la trovava un po’ snob, destinata agli happy few del mondo musicale parigino, le cinquanta persone che lo componevano. Trovava nella musica questo aspetto haute couture, elitista, indirizzato a una categoria ben precisa di gente. Dunque non gli interessava perché, come ho detto, a lui interessava la grande società, i mass media. Tante volte gli ho sentito dire, dopo aver ascoltato una nuova composizione: “è tutta fronzoli”. Questa critica era molto interessante perché grazie a essa un giorno ha deciso di smembrare il primo gruppo, ha mandato via tutti dicendogli di andare a fare quello che stavano facendo altrove. Il suo intento era che non si facesse musica ma ricerca. Ricerca su come si ascolta, come funziona l’ascolto, che parola possiamo associare ai vari suoni, se siamo davanti a un fenomeno audio complesso come possiamo chiamarlo, come possiamo riconoscerlo, che tipi di universi possiamo trovarvi all’interno: era l’idea di fare un solfeggio degli oggetti sonori, un solfeggio generale di tutte le unità che l’orecchio può percepire. È un’idea molto ricca, del genere di quelle che hanno avuto i primi scienziati ai tempi in cui si provava a comprendere come erano fatte le colline, le montagne eccetera, e si trovavano dei nomi, “montagna”, “collina”. Si cercava di descrivere il mondo, come descrivere le piante, gli animali più vari, gli invertebrati, i vertebrati, i pesci, i mammiferi… Comprendere, scegliere delle parole per definire delle classi e delle specie, e al loro interno delle varietà eccetera. Schaeffer ha pensato che il suono dovesse essere trattato alla stessa maniera, che bisognava provare a riflettere e trovare delle cose universali all’interno di cose molto complesse e che sembrano assolutamente uniche. I suoni sono allo stesso tempo tutti molto unici e molto universali. Il numero di classi non è infinito, ce ne sono tre, quattro, cinque, e al loro interno c’è molta varietà. Io sono arrivato proprio in questa fase, e questo lavoro mi sembrava interessantissimo, molto più interessante della musica che veniva composta. Dunque sono stato tra i primi partigiani di questo approccio, ed è così che pian piano sono diventato il successore di Schaeffer, che era molto più anziano di me. Io ho continuato al GRM e in questa direzione ho contribuito alla scrittura e all’edizione del Traité des objets musicaux e del Solfège de l’objet sonore. A differenza di Schaeffer, e in questo fortunatamente lui mi ha lasciato in pace, a me piaceva la musica e i musicisti. A lui non piaceva molto la musica che usciva dallo studio, generalmente la trovava proprio pessima, mentre a me piaceva, la sostenevo. Questo è stato importante perché è grazie a me che molti compositori sono venuti al GRM e Schaeffer non ha tagliato loro la testa, non li ha insultati dicendo loro che erano pessimi, non li ha cacciati… Lui stava in una zona dell’edificio, ai piani alti della gerarchia, mentre io stavo nello studio, in basso, e in questo modo abbiamo coabitato molto positivamente.
Poi ho continuato a sviluppare il GRM, ho creato l’Acousmonium, che ha dato la possibilità ai compositori di comprendere che potevamo fare della musica orchestrale con il suono proiettato, documentando la complessità di quella musica, che prima era molto lineare, molto radiofonica. La cosa straordinaria è la rapidità dei cambiamenti del mondo industriale: normalmente queste tappe avrebbero preso tre o quattro generazioni, credo. Ora le cose succedono a una velocità folle, tecnologie che occupavano una stanza intera oggi stanno in qualche millimetro quadrato. Dunque ho accolto e assistito i primi ricercatori che mi hanno mostrato l’esistenza del computer e la possibilità di simulare il mondo analogico con delle equazioni digitali. Naturalmente ero perfettamente al corrente di quello che stava facendo il mio collega Jean-Claude Risset: la sua prima opera Mutations fu una commissione del GRM da parte mia; per il primo premio che Risset ha ricevuto io ero nella giuria a Dartmouth, da Jon Appleton, gli abbiamo conferito quello che era un premio storico ed era la prima volta che un’opera per computer veniva creata ed era talmente ben fatta da meritare un premio internazionale. È stato un grande momento storico, una vittoria, e io sono contento di averne fatto parte. Ho anche avuto la fortuna che la reputazione del GRM attraeva delle persone giovani, dal Politecnico, che non erano musicisti ma che erano molto interessati alla tecnologia dell’audio digitale. Noi abbiamo sviluppato il progetto di fare della musica digitale un po’ prima della creazione a Parigi dell’IRCAM: con la creazione dell’IRCAM questo fenomeno si è amplificato, e Berio, che noi conoscevamo bene già da prima, è diventato direttore del dipartimento musicale dell’IRCAM – il che era una cosa molto positiva, perché Boulez non amava molto Schaeffer, c’era una grande rivalità, Schaeffer non amava la musica che faceva Boulez, e Boulez non amava la musica concreta perché la trovava dilettantesca… E avevano ragione entrambi: Schaeffer aveva ragione a disprezzare Boulez che tagliuzzava i nastri in mille pezzi per fare delle cose pretenziose, e Boulez non apprezzava l’assenza di competenza musicale, quell’attitudine da bricoleur, e purtroppo avevano totalmente ragione entrambi. Ma la storia ha voluto che fortunatamente venissero fuori molti altri musicisti migliori e capaci… Anche Boulez ha costruito un’istituzione, l’IRCAM, che era vicinissima all’idea del GRM, semplicemente l’ha fatto in un contesto che gli ha permesso di avere molte più risorse. La mia prospettiva è stata diversa, perché non ero arrabbiato con Boulez come lo era Schaeffer, quindi siamo coesistiti senza farci la guerra. Ho lasciato il GRM dopo vent’anni, e il GRM esiste ancora, il che prova che si tratta di qualcosa di solido e i nostri successori si sono mostrati capaci di sostenere l’esistenza del centro. Gli incontri fatti in quel contesto sono stati per me fruttuosi, specialmente quello con Luciano (Berio), che è venuto a fare Chants parallèles al GRM, e che in seguito ho assistito diverse occasioni, come per Laborintus II: queste cose appartengono a una storia che abbiamo in comune. Quanto a me, non mi sento veramente un compositore: mi sento una persona che semplicemente si è trovata in un buon momento dentro una storia molto complessa, un momento-cerniera, di svolta. Ho reso un buon servizio perché avevo uno spirito aperto a cose differenti. Nella mia vita sono stato essenzialmente un manager, piuttosto: ho passato tutta la vita ad ascoltare i compositori, a organizzare concerti, concorsi… Semplicemente ogni anno, per un mese, mi ritiravo dall’attività sociale per fare un lavoro personale. L’ho fatto regolarmente per cinquanta, sessant’anni, e dunque la mia opera comprende lavori sviluppati soltanto in pochi giorni: ci sono opere che ho sviluppato in dieci giorni, altre in venti giorni, altre ancora in trenta, il massimo che dedicato a un’opera è forse quaranta giorni. Ma questo è compensato dal fatto che per ognuna avevo riflettuto per tutto l’anno: avevo ascoltato le opere di tutti gli altri, avevo pensato, criticato, dentro di me… rispetto a un lavoro che non conoscevo ancora, eppure funzionava, non so come, non so spiegarlo. E dunque non mi definisco un compositore perché non ho fatto una carriera da compositore. Un compositore professionista è qualcuno che ogni quattro anni fa un’opera di teatro musicale, due pezzi sinfonici e cinque pezzi di musica da camera, e che lavora con programmando con cinque o sei anni di anticipo, perché per scrivere un’opera di teatro musicale ci sono tutti dei preparativi, il lavoro del librettista, la messa in scena, il lavoro del regista, del direttore d’orchestra eccetera… Il compositore professionista è questo, ce ne sono pochissimi. Vale lo stesso per i musicisti, i grandi pianisti, i grandi violinisti: i professionisti sono quelli che dedicano la vita intera alla carriera, l’esercizio costante, le tournée, le pressioni della concorrenza… Sono grato di aver potuto fare altro, che mi ha evitato di fare il professionista, la considero una grande fortuna. Eppure ho dato vita a un’opera. Un’opera che, attenzione, non è niente di speciale, è l’opera direi di un testimone della musica, un testimone di un’avventura della musica che è grande ma marginale, perché penso che l’elettroacustica sia qualcosa che resta marginale, e che non so nemmeno se si svilupperà in futuro. Spesso penso che… ma è solo una mia impressione, e peraltro non lo penso al 100%… facciamo per esempio un confronto con l’arte pittorica, dalla rivoluzione che ha fatto sì che si abbandonasse la rappresentazione, a causa dell’avvento della fotografia che ha tolto la necessità della rappresentazione – perché per fissare il ricordo di qualcuno, per inviare all’estero l’immagine del capo di uno stato, prima l’unica soluzione era chiedere al pittore di fare un ritratto in quattro esemplari per mandarlo al Granduca di Toscana, all’Imperatore, cosicché fosse visibile. Una volta che l’arte pittorica si è affrancata da quest’obbligo, ora non guardiamo più qualcosa per riconoscerne il contenuto, ma per far lavorare l’occhio che guarda dentro il quadro. E così abbiamo inventato una pittura che usa il tempo, il tempo di guardare nel quadro: certo, tutti i quadri richiedono del tempo per essere guardati, ma in particolare la pittura astratta. Questa rivoluzione ha definito un’epoca, dentro la quale si sono susseguiti dei periodi circoscritti, che iniziano e terminano e lasciano spazio a un nuovo periodo: la pittura impressionista, il cubismo… Penso che la musica elettroacustica possa essere considerata come un periodo, con un inizio e una fine, che forma un mondo con delle opere, certi autori, con dei punti più importanti di altri, e poi una volta concluso questo periodo ne viene un altro, non so, forse la musica dei performer, il periodo della spontaneità, che è appena iniziato, da soli dieci, quindici anni forse. A volte penso questo. Ma penso anche il contrario, nel senso che la musica è ormai legata in modo indissolubile all’uso della proiezione sonora: fabbricare dei suoni per mezzo di uno strumento era una modalità, mentre proiettare delle strutture che sono preparate su dei supporti era un’altra possibilità: questa possibilità è definitiva, non possiamo più eliminarla, perché è qualcosa di facile, comodo, permette di fare delle cose sui generis che non possono essere fatte in altro modo, ed è dotata di un impatto fortissimo per l’ascolto, per la ricezione, per l’immaginazione. Questo rappresenta uno spazio nuovo che sarà riempito da creazioni, da creatori con nuove immaginazioni, per sempre. Lo stile forma delle isole chiuse, ma il mezzo in senso generale, quello è per sempre: ogni volta che si scopre un mezzo solido rimane per sempre, penso. Ma dopotutto potrebbe svilupparsi un altro modo di provocare l’ascolto attraverso, non so, dei sensori sotto la pelle… Ma preferisco mantenere le mie orecchie, la distanza, la comunità dell’ascolto. Amo il mondo in cui sono cresciuto, e non riesco a immaginare un mondo diverso che possa essere migliore, un mondo diverso in cui questo non esistesse mi sembrerebbe terribile, una caricatura, l’inferno.
Foto © Giulia Sarno
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