di Marco Baldini e Andrea Marazzi (CoMET)
Lo scorso 2 aprile, negli spazi del collettivo Superbudda di Torino, CoMET e Noise Delivery hanno presentato il concerto del compositore e performer Lionel Marchetti. Gli abbiamo fatto qualche domanda.
Sei ormai da molti anni un punto di riferimento per la musica elettronica: quando ti ci sei avvicinato, come e quali sono sono state le motivazioni che ti hanno spinto ad approcciarti alla musica sperimentale?
Fin da bambino ho sempre avuto un forte interesse per l’arte, per le cose poetiche, per l’esprimersi; ho cominciato molto presto a disegnare. Da ragazzo non ero particolarmente interessato alla musica, preferivo la pittura e, più in generale, l’arte contemporanea. Negli anni del liceo studiavo clarinetto e musica classica in conservatorio, vicino a Lione, ma non mi piaceva granché, soprattutto perché avevo una visione diversa della contemporaneità rispetto alla chiusura mentale di quell’ambiente. Pensavo che i musicisti non fossero artisti proprio per questo motivo, li vedevo distanti rispetto alla realtà e ancorati a delle prospettive passatiste e conservatrici. A circa diciassette anni ho scoperto la musica concreta acusmatica sentendo alla radio una composizione di Bernard Parmegiani. Da quell’ascolto ho capito subito che anche nella musica era possibile lavorare una materia in modo molto artistico ma senza sottostare al pesante passato della musica classica. Questa è stata la scintilla. Lì è nata la decisione di fare questo nella vita.
Quali sono stati i primi passi?
La possibilità di registrare e manipolare i suoni mi è sembrata subito qualcosa di incredibile e dunque, poco a poco, sono entrato nel mondo della registrazione. Come primi esperimenti ho cominciato registrando il clarinetto con un piccolo registratore procuratomi fortuitamente. Già soltanto la riproduzione a diverse velocità mi permetteva di creare qualcosa di nuovo, di non riproducibile in natura. Dopo aver suonato in alcuni gruppi pop, durante il primo anno di università, ho comprato un registratore a quattro piste che ha cambiato completamente il mio modo di comporre grazie, appunto, alla possibilità di fare i mix, ascoltare i suoni in reverse ecc. Mi rendevo conto che il processo elettronico di manipolazione sonora permetteva effettivamente di creare e modellare dei suoni non udibili altrimenti e, grazie agli altoparlanti, trasformare la condizione acusmatica in condizione reale. Registravo un piccolo sintetizzatore, elaboravo il pitch, utilizzavo un riverbero prestatomi da un amico e, da autodidatta, a circa 21 anni ho cominciato a comporre dei piccoli studi di pochi minuti, che poi sono diventati circa settanta. Sempre in quel periodo ho assistito a Lione a un concerto di Parmegiani in cui spazializzava per 60 altoparlanti “La création du monde”, un’opera straordinaria e per me punto di riferimento. Alla fine degli anni Ottanta al posto del servizio militare, che in Francia era ancora in vigore, ho scelto di fare il servizio civile e così mi sono ritrovato ad occuparmi di un piccolo studio di registrazione dell’università di Lione. Oltre ad adempiere ai compiti del servizio, ammetto in minima parte, questo mi ha dato la possibilità di registrare e lavorare alle mie composizioni in una condizione migliore e, avendo a disposizione varie macchine, di ottenere una qualità audio professionale. Da lì non ho più smesso di scrivere, comporre e lavorare alla mia musica. Ironia della sorte, pochissimo tempo dopo, credo nel ’90, dopo aver mandato dei mie pezzi al GRM, mi sono ritrovato, giovanissimo, a fare un concerto a Parigi con François Bayle, Ivo Malec e proprio Parmegiani.
Hai scoperto Parmegiani grazie alla radio. Mi sembra che Radio France storicamente, soprattutto in relazione a come siamo abituati in Italia, sia sempre stata e sia ancora attenta verso un certo tipo di musica: è così?
Non proprio, in parte. O meglio, in quel periodo era un po’ l’inizio della fine. All’epoca c’erano due o tre programmi al giorno che si occupavano e trasmettevano musica acusmatica, sperimentale e limitrofa a queste forme. Oggi non c’è quasi niente. Si può sentire una trasmissione di un’ora sull’improvvisazione, ma è appunto soltanto una e riguarda l’improvvisazione tout court, quindi anche classica, barocca ecc., e tra l’altro nel palinsesto notturno. Stiamo vivendo da 25 anni un inesorabile declino da questo punto di vista, ma siamo arrivati talmente in basso che mi sembra ci sia solo la possibilità di migliorare.
Dici di essere compositore e improvvisatore, come a voler delineare una netta distinzione tra le due figure. Ci puoi parlare di questa doppia modalità di manipolare la materia musicale?
Quando sono nel mio studio e ho bisogno di creare dei suoni per una composizione, devo essere in un qualche modo improvvisatore perché i suoni vanno fabbricati, ma questa fase del lavoro è molto piccola. Ogni suono che produco e che mi piacerebbe utilizzare in una composizione, necessita di un’attenta analisi prima nella sua microstruttura e poi nel suo inserimento nel discorso generale della composizione. È un approccio molto lento e particolarmente attento al piccolissimo particolare, come lavorando con ago e filo o come un piccolo insetto che piano piano costruisce qualcosa di grande. La fase di composizione dei miei lavori è molto lunga, talvolta occupa mesi o anni. Ogni suono che creo lo analizzo nel minimo dettaglio, lo butto via, lo recupero, cerco relazioni tra i diversi materiali finché non nasce qualcosa che mi convince: suoni che possono sembrare non avere nulla a che fare tra loro, una volta avvicinati cominciano a far esistere qualcosa che prima non esisteva. Se qualcosa comincia a esistere, allora la tengo. Insomma, mi prendo davvero molto tempo. Quando invece sono sulla scena, il mio respiro è il respiro del concerto, sono legato al tempo reale. Il mio sistema non utilizza informatica, suono un sintetizzatore e utilizzo dei looper per registrare delle cose e riprodurle nelle diverse modalità per far sì che lo sviluppo del live sia sempre in accordo con il luogo in cui sto suonando. Prima di cominciare a suonare non so e non voglio sapere cosa succederà, quali saranno i suoni che userò; la costruzione del concerto vive della relazione tra me, il pubblico, gli altoparlanti ecc. Quello del musicista che improvvisa e suona sul palco per me è un altro mestiere rispetto al compositore, perché affronta la problematica della presenza sulla scena, dell’ avere o meno la capacità di prendersi il rischio di essere completamente nudi perché partendo da uno stato di coscienza non superiore rispetto a quella del pubblico, che scopre i suoni e li sente nello stesso momento in cui li sento io. Per me il live è una specie di meditazione attiva, costruisco qualcosa di più o meno caotico, ma tutto completamente strutturato sull’idea di accordarmi con il luogo, la situazione. Il mio approccio in studio è, invece, più simile a quello di un pittore che lavora contemporaneamente magari a dieci progetti e con uno sguardo fortemente analitico, personale, solitario.
Hai sempre mantenuto questa dualità espressiva o è nata con il tempo?
Inizialmente non facevo e non volevo fare live. Negli anni universitari ho fatto danza contemporanea con una compagnia di sette ballerini; avevamo un approccio molto fisico e basato su una forte componente di improvvisazione. Mi piaceva molto stare sul palco. Inoltre con degli altri amici lavoravo anche alla creazione di scenografie per il teatro, quindi in un certo senso c’era già un campo aperto verso la prospettiva dello spettacolo, della performance, ma semplicemente non volevo farlo con la musica elettroacustica. Così è stato finché un artista e amico, Jérôme Noetinger, non mi ha chiesto e convinto a suonare con lui. Abbiamo cominciato con un pianoforte preparato senza tastiera e oggetti per fare suoni percussivi e poi, piano piano, ho cominciato ad aggiungere altre cose: una radio a onde corte, un altoparlante, microfono e amplificatore per lavorare sul feedback ecc. Di fatto mi interessava creare un set minimale che non avesse bisogno del mixer e soprattutto mi permettesse di non avere sulla scena le stesse cose che utilizzavo nello studio. Così ho cominciato a suonare con Jérôme – abbandonando il pianoforte abbastanza presto, in realtà, perché scomodo da trasportare – e abbiamo sviluppato un duetto di improvvisazione che dura ancora oggi.
Una volta artisti, quanto è importante la tradizione? Che rapporto hai con la tradizione della musica concreta?
Dopo molti anni ho capito che la vera tradizione è qualcosa di vivente. Quando ero giovane avevo un atteggiamento diverso nei confronti dei padri, tradizione per me voleva dire conservatorismo, ma oggi lo ritengo un errore. Le cose migliori nascono quando siamo in grado di approfittare del lavoro di quelli che hanno creato prima di noi per inventare delle cose nuove. Fin dall’inizio della musica concreta esiste quest’idea, si pensi a Schaeffer e alla sua volontà di inventare una tradizione per il futuro, qualcosa con delle basi solide che permettesse ai futuri compositori di intraprendere strade non ancora battute, ma con alle spalle opere, idee, scoperte ben delineate anche da un punto di vista concettuale. Chiaramente da compositori non possiamo che proiettarci in avanti, dobbiamo inventare delle cose nuove, fare ricerca, sperimentare costantemente. La stessa necessità di accordarsi al futuro vale anche per gli interpreti, e i grandi interpreti lo fanno, il problema è quando ad essere interpretata è sempre la stessa musica, quando c’è un’innovazione nell’interpretazione, ma il repertorio non cambia. Comunque credo che la buona tradizione ci insegni a non uccidere i padri, ma piuttosto a superarli approfittando del loro lavoro.
E l’imitazione?
L’imitazione nella arti è molto importante: sembra normale per un pittore da giovane imitare i vecchi, per imparare come si disegna una sedia bisogna guardare come hanno fatto gli altri a disegnarla, imparare come si fa e farla, per poi disegnare altre cose in modo diverso. Nella musica concreta, io stesso, l’ho fatto da giovane; in un contesto sperimentale è fondamentale l’imitazione se si vuole provare a fare qualcosa di grande e complicato, soprattutto per capire la gestione formale delle composizioni. Sapere come condurre la costruzione di cinque minuti o dieci ore di musica non può essere qualcosa di innato, ma è necessario riflettere il proprio lavoro nelle modalità altrui prima di capire qual è il nostro modo di fare. Molto velocemente quando si ha nelle mani il proprio materiale, il modello svanisce e ci si ritrova con qualcosa di proprio che altrimenti, senza l’aiuto dell’imitazione, non sarebbe mai esistito. Ecco ancora la tradizione che si può porre come risorsa per creare qualcosa di nuovo. L’artista non può avere gli occhi chiusi e soprattutto non può lavorare contro, deve piuttosto reagire, perché agire contro è un’idea negativa, e quando l’idea è negativa, il risultato è negativo. L’assoluta rinuncia ai punti di riferimento è una vanità. Piuttosto è interessante accogliere le idee degli altri, prenderle, giocarci e poco a poco costruire il nostro mondo.
img: Lionel Marchetti live, Superbudda, Torino, 2 aprile 2017 (INFO) © Alessio Anastasi
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