di Luisa Santacesaria
[Da poche settimane è uscito per Arcana Edizioni I sogni d’oro dei Beatles. Guida all’ascolto di Abbey Road di Lelio Camilleri, che contiene un interessante sguardo analitico sull’ultimo lavoro discografico della band di Liverpool, oltre a dare utili riferimenti sulle tecniche di registrazione impiegate. L’autore, che il prossimo 9 gennaio presenterà il libro presso la Biblioteca delle Oblate di Firenze assieme ad Andrea Gozzi (Sala Sibilla Aleramo, ore 17:00), ha risposto ad alcune nostre domande.]
Come spieghi molto bene nell’Introduzione del libro, Abbey Road è il capitolo finale di un processo iniziato già con Revolver (1966), in cui la band passa da dedicarsi principalmente ai concerti dal vivo a creare esclusivamente prodotti discografici in studio. Questa attenzione agli aspetti tecnici della registrazione – così come l’idea di intendere lo studio di registrazione come “strumento compositivo” – permette di creare diverse densità e piani sonori per ottenere ambienti acustici peculiari nei vari pezzi. Puoi farci qualche esempio particolarmente significativo?
Come ho scritto nel libro, i Beatles iniziano con un album, Please, Please, Me (1963) realizzato in un giorno, registrando i brani dal vivo in studio e concludono la loro parabola creativa con un album in cui, raramente, si trovano a essere tutti e quattro insieme nelle varie sessioni. Leggendo la cronaca delle loro sessioni di registrazione, nell’ottimo libro The Beatles Recording Sessions di Mark Lewisohn, si può vedere come, da Revolver in poi, e sempre di più, i brani vengono registrati e montati come un puzzle, con l’uso della variazione di velocità che spesso viene usata per trovare il giusto ritmo articolatorio del brano e altri artifizi: Stg. Pepper rappresenta, sicuramente, un’esperienza importante nell’uso dello studio di registrazione come strumento compositivo. Gli esempi potrebbero essere molti. Il primo è quello del lungo brano che viene chiamato medley (da me definito iper-brano) in cui si assiste a un lavoro di montaggio molto dettagliato. Ad esempio, l’ultimo brano inizia come avrebbe concluso Mean Mr. Mustard, segmento collocato molto prima di questo mentre i primi due frammenti sono collegati fra loro mediante alcuni loop di suoni ambientali. frammenti. Un ulteriore esempio può essere la parte vocale di Because, realizzata mediante una triplice sovrapposizione delle armonie vocali del trio Harrison, Lennon e McCartney Anche il bridge di Here Comes the Sun, con la sua struttura ritmica articolata in metri differenti, è sicuramente il risultato di un montaggio di segmenti registrati a cui viene leggermente variata la velocità.
Spesso nel libro fai riferimento alla struttura del disco rispetto al vinile (il modo in cui si interrompe bruscamente il lato A, la sequenza dei brani nel medley nel lato B, ecc.). Quanto è importante il supporto nella concezione formale di questo progetto? E, di contro, quanto si perde di tutto questo, secondo te, se si ascolta l’album su piattaforme digitali (tipo Spotify)?
È indubbio che, a parte alcuni casi, la disposizione dei brani nelle due facciate di un vinile era assoggettata a una logica discorsiva. Poteva essere dovuta alla durata dei brani, ad esempio in molti album il brano più lungo occupava una facciata, A o B (Atom Earth Mother dei Pink Floyd nell’album omonimo o Nine Feet Underground nell’album In the Land of Grey and Pink dei Caravan). A parte questo tipo di condizione obbligatoria, però, spesso la suddivisione dei brani sottintendeva un’idea particolare della forma dell’album. In Abbey Road, si può notare come sia la faccia A, con I Want You che la facciata B, con Her Majesty, concludano in modo brusco e non risolutivo. Se nella facciata A questo può essere una sorta di suggerimento per far capire che la serie dei brani singoli si conclude con Because, nella seconda facciata, quello di Her Majesty ha un duplice significato: rinsaldare il legame con Mean Mr. Mustard, a cui ha tolto l’accordo finale e quindi viene eliminato anche a questo brano; creare una conclusione sospensiva dell’album, in contrasto con la sequenza finale del brano precedente, The End, che invece conclude in modo evidente anche in ragione della famosa frase del testo “The love you take is equal to the love you make”.
L’ascolto odierno, soprattutto quello nelle piattaforme digitali come Spotify, di fatto distrugge l’unitarietà di un album e il suo discorso musicale complessivo. Questo poteva essere vero anche una volta, con i 45 giri e comunque con l’ascolto di un singolo brano, ma esisteva sempre il riferimento e il legame al contesto dell’album. Quelli della mia generazione, spesso, ascoltano un album intero perché è come se ogni pezzo avesse comunque un legame con gli altri e soprattutto perché ancora siamo legati al supporto fisico del CD, o del vinile per alcuni. Posso solo dire che è un altro modo di ascoltare e spero stimoli la curiosità di andare a “vedere” in che album era inserito quel brano per poi ascoltare il disco per intero.
Ci spieghi qual è stato il tuo metodo di analisi dei vari brani (sonogrammi, spettrogrammi, trascrizioni, ecc.)? Che programmi hai utilizzato in particolare?
Il mio approccio analitico è stato per alcuni aspetti tradizionale, riguardante la forma e alcuni aspetti della struttura melodica e armonica dei brani e per altri invece meno convenzionale perché ho indagato la struttura dello spazio sonoro. Questo tipo di approccio è, secondo me, indispensabile perché queste musiche sono progettate per i mezzi di registrazione e riproduzione sonora e la disposizione dei suoni nello spazio spettrale (l’ambito delle frequenze) e in quello localizzato (la finestra stereofonica) sono elementi fondamentali del discorso musicale di tutti i brani. Non ho usato particolari programmi. Per individuare dei frammenti, riascoltarti, analizzare la localizzazione spaziale e alcune altre caratteristiche, ho usato un normale programma di editing audio. Per i sonogrammi ho usato l’Acousmographe, un software realizzato dal Groupe des Recherches Musicales di Parigi. Lo strumento, comunque, più importante è stato l’orecchio che ha svolto un lavoro di ascolto attento, dettagliato e ripetuto moltissime volte!
Anche prendendo in considerazione brani che non fanno parte di Abbey Road, se dovessi fare una classifica dei dieci pezzi dei Beatles più complessi a livello di struttura, tecniche di registrazione e produzione, quale sarebbe?
Non è facile rispondere a una domanda perché i brani dei Beatles si portano dietro sempre un legame extramusicale che ne influenza la scelta anche in relazione alla loro complessità o elaborazione. Ciò vale per tutte le musiche ma per i Beatles è ancora più vero, a causa della loro presenza continua e capillare nella vita di tutti noi. D’altronde i Beatles non sono stati solo un fenomeno musicale, anche se la loro musica è di gran lunga la parte più importante.
È, comunque, interessante provare a fare una sorta di classifica che, a mio modo di vedere, è prevalentemente circoscritta a due album molto legati fra loro, Stg. Pepper e Abbey Road, ed è comunque da considerarsi indicativa e non definitiva.
- Medley (Abbey Road)
- Something
- I Want you (She’s so heavy)
- Pepper Lonely Heart Club Band
- Here Comes the Sun
- A Day in the Life
- I’m Only Sleeping
- For the Benefit of Mr. Kite
- Think of Yourself
- Back to the U.S.S.R.
Think of Yourself (Rubber Soul) è interessante perché per la prima volta McCartney usa il basso con il distorsore, una novità per quell’epoca. C’è un solo brano del cosiddetto White Album, Back to the U.S.S.R., perché, a mio parere e nonostante il suo vero titolo The Beatles, è il meno beatlesiano sia come sound che come approccio compositivo. Il resto dei brani è circoscritto ai due album che a livello creativo e produttivo, presentano due vertici della produzione dei Beatles, ammesso si possa fare una classifica del genere.
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