[“In questi interventi che musicaelettronica.it gentilmente ospita, mi concentrerò su alcuni miei lavori. Non perché li ritenga esteticamente meritevoli di interesse. L’autopromozione è forse un male necessario, ma non si capirebbe perché la mia debba impestare le pagine di questo sito: c’è abbastanza internet per tutti. Ho pensato invece che discutere il bricolage complesso, molto macchinale e altrettanto macchinoso, che ne è all’origine possa avere qualche elemento di interesse per il lettore. Potrà quantomeno guadagnare nel sapere cosa non gli interessa”].
A partire dai primi anni 2000 si assiste all’emergenza di un insieme di pratiche tecniche che vanno sotto la definizione di “physical computing”. La locuzione viene in qualche modo stabilizzata grazie al libro omonimo (e forse eponimo) di O’Sullivan e Igoe. [1]
Il physical computing si propone di disaccoppiare il calcolo dal calcolatore, o meglio, la computazione (come dimensione teorica) dal computer (come implementazione tecnologica). L’assunto fondamentale è che non c’è bisogno di una certa tecnologia depositata in un oggetto specifico per sfruttare la computazione. L’“oggetto” che O’Sullivan e Igoe hanno in mente è soprattutto il computer portatile, che 15 anni fa entra prepotentemente sulla scena artistica come protagonista sul palco. I due autori lo trovano in sé poco interessante e poco adatto alla performance (e questa è ovviamente un’opzione estetica, e dunque definitoriamente discutibile): si propongono quindi di spostare i processi che vi sono tipicamente situati in altri oggetti. Di qui l’idea di computazione orientata agli oggetti fisici. La chiave di volta è il microcontrollore, che da un lato permette di implementare processi computazionali (come l’oggetto computer tradizionale) mentre dall’altro è in più capace di “parlare” con il mondo. O almeno, con una certa declinazione del mondo sotto forma di segnali elettrici utili a controllare una pletora di meccanismi e dispositivi che ci circondano. Ecco allora che un progetto descritto da Igoe in un altro testo [2] prevede di utilizzare come segnalatore della presenza di gas uno scimmiotto giocattolo che suona una coppia di piattini.
Quello del physical computing è un movimento storicamente interessante perché vede la confluenza di attività diverse per ambito temporale e origine tecnica.
Da un lato, fa perno sul microcontrollore. Ora, quest’ultimo ha una lunga storia di impiego industriale (le macchine a controllo numerico), ma la novità è che a partire circa dal 2000 sono disponibili schede integrate che annidano compattamente il microcontrollore vero e proprio (che è semplicemente un circuito integrato) in una circuiteria appropriata (alimentazione, interfaccia elettronica, connettività). Queste schede possono essere programmate attraverso il calcolatore, che tipicamente vi è connesso attraverso la porta seriale (USB). Ancora, programmazione vuol dire, nel contesto delle schede microcontrollore, un ambiente di sviluppo software di (più) alto livello rispetto alla standard industriale, cioè la disponibilità di un linguaggio di programmazione più vicino all’utente che non alla macchina, dunque molto più snello in fase di prototipazione. Poco dopo il testo di O’Sullivan e Igoe, partirà il progetto di più grande successo nell’implementare queste caratteristiche, tanto da diventare una sorta di standard (almeno in termini di paragone): Arduino, open source sia in termini hardware che software, il cui nome è ormai quasi transitato da proprio a comune, per antonomasia vossianica. Ormai, Arduino è sinonimo di scheda microcontrollore, anche se a dire il vero, recentemente la situazione si è notevolmente diversificata non solo con una pletora di altre schede microcontrollore, ma addirittura di microcomputer veri e propri (il progetto più famoso nell’ambito è senz’altro Raspberry).
Dall’altro lato, il physical computing si riallaccia a una prassi, quella della elettronica DIY (Do It Yourself), che ha una lunga storia, parzialmente sotterranea, sviluppatasi soprattutto in area americana, e fiorente negli anni ’60-’70. Questa storia è molto musicale. Infatti, ha un momento importante nelle sperimentazioni elettroniche di Cage e dal gruppo di musicisti che operano con lui, e più specificamente grazie a David Tudor e al collettivo Composers inside the electronics, che a Tudor faceva riferimento. Il punto nodale di questi approcci alla musica elettronica è la riappropriazione della tecnologia per usi creativi, il mettere le mani sulle cose per capirne il funzionamento e insieme uscire dai vincoli che la commercializzazione della stessa tecnologia impone sugli usi. Epitome testuale di questo approccio è il libro, giustamente famoso, di Nicolas Collins, Handmade Electronic Music.[3]
Dunque, nel physical computing, almeno nella sua declinazione musicale, si potrebbe dire che convergono due linee, entrambe tecnologiche e artistiche: il furore manipolativo analogico e la programmabilità digitale.
Personalmente, a partire dal 2008 ho sviluppato un insieme di progetti musicali legati a una prospettiva di computazione orientata agli oggetti fisici che può essere descritta in termini di “orchestre residuali”.[4] Nella locuzione, il sostantivo si riferisce alla costruzione di insiemi di strumenti che sono acustici nella produzione del suono ma computazionali in termini di controllo. L’aggettivo sottolinea invece sia la dimensione di riduzione dello strumento ad una sorta di minimum organologico (idiofonia, aerofonia, cordofonia) che un’estetica legata al recupero e alla rifunzionalizzazione di oggetti e materiali comuni o a basso costo. Quest’ultima prospettiva è stata descritta in termini di “rifabbricazione”: un processo cioè che insieme mantiene l’identità dell’oggetto e ne muta l’uso, individuando una sorta di statuto semiotico ambiguo, in cui origine e (nuova) funzione restano entrambe disponibili.
Ho posto questo approccio sotto l’emblema “Punk Munari”. Da un lato, Massimo Banzi, uno dei fondatori del progetto Arduino ha sollecitato un approccio punk alla tecnologia [5]: ovvero il provare anche se non si sa, in termini inglesi “learning by doing”, secondo un modo punk di intendere l’approccio alla musica (“questi sono degli accordi: ora fai una canzone”). Dall’altro, in Codice ovvio [6] Bruno Munari ha sottolineato l’importanza dello sperimentare e del definire una teoria dell’oggetto in parallelo alla sua stessa costruzione: un approccio che il designer milanese chiama “TMO”, ovvero “Tecnica mentre opero”.
Riassumendo, si tratta perciò di costruire strumenti musicali minimali e assicurare le condizioni per una qualche forma di controllo computazionale. Quest’ultimo termine nel mio caso indica un insieme di processi algoritmicidi alto livello, cioè propriamente legati al “musicale”, ovvero l’ambito della composizione algoritmica, e che dunque richiedono risorse tipicamente disponibili attraverso il calcolatore. Ad esempio, il processo algoritmico può tradursi in canoni o altre forme tradizionali, può risultare dalla sonificazione di dati, può dipendere dall’analisi di segnali audio. In più, il controllo deve avvenire in tempo reale, e permettere un uso propriamente “strumentale” –cioè interattivo e improvvisativo – dei dispositivi prodotti, magari attraverso interfacce grafiche e superfici di controllo MIDI. Si tratta di processi che richiedono flessibilità e risorse computazionali e che non possono essere implementati direttamente su un microcontrollore.
In questo senso, una tale declinazione del physical computing è tripartita e orientata. Richiede cioè in primo luogo tre elementi: calcolatore, scheda microcontrollore, dispositivo fisico. In secondo luogo, il flusso di informazioni procede lungo questa stessa sequenza (dal calcolatore al dispositivo via microcontrollore): in una simile configurazione, il microcontrollore (nel mio caso, di solito Arduino, ma non sempre) si comporta in modo poco “intelligente”, cioè propriamente come un convertitore digitale-analogico, poiché riceve messaggi in tempo reale dal computer e li converte in segnali elettrici di controllo per i dispositivi. Questi ultimi, dovendo produrre segnali acustici, sono tipicamente elettromeccanici e fanno uso di vari tipi di motori e attuatori, cioè elementi capaci di convertire l’energia elettrica in energia meccanica. Alla fin fine si tratta infatti pur sempre di battere, pizzicare, soffiare.
Nel corso di più di una decina d’anni ho bricolato, a partire dal cosiddetto Rumentarium [7] (un insieme percussivo di 24 elementi), un discreto arsenale di dispositivi.[8] Bricolage è in effetti termine corretto sia in un’accezione letterale (come lavoro domestico a bassa intensità) che nel quadro antropologico lévi-straussiano che ha ripreso teoricamente il termine: secondo quanto previsto dalla logica Punk Munari, il physical computing è in effetti per me una forma di “pensiero selvaggio” (Lévi-Strauss), in cui si risolve un insieme di problemi musicali con pochi mezzi materiali e di conoscenza.
Volevo cogliere allora l’occasione per descrivere, a mo’ di tutorial o quasi, l’ultimo arrivato nell’allegra brigata, ovvero il serraturofono a boracce: un set di 12 percussioni intonate controllabili interattivamente dal calcolatore in tempo reale. Descriverò allora il mirabile istromento tenendo conto della tripartizione precedente. Va tenuto presente che, sebbene discusse analiticamente in forma separata, le tre componenti sono strettamente legate in fase di progettazione da un circuito di retroazione, in cui ognuna impone vincoli alle altre due e insieme ne determina possibilità costruttive e operative. Questi tre elementi sono propriamente tre strati dello strumento, che chiamerò fisico, fisico-computazionale e computazionale.
[fine prima parte]
[1] Dan O’Sullivan e Tom Igoe, Physical computing, Boston, Course Technology, 2004.
[2] Tom Igoe, Making Things Talk, Beijing etc, O’Reilly, 2007.
[3] Nicolas Collins, Handmade Electronic Music. The art of hardware hacking, New York-London, Routledge, 2006.
[4] Andre Valle, Residual Orchestras: Notes On Low Profile, Automated Sound Instruments, in The Virtuous Circle. Design Culture and Experimentation. Prooceedings of the Cumulus Conference, Milano 2015, pp. 7171-729, disponibile qui: https://www.academia.edu/12822504/Residual_Orchestras._Notes_on_low_profile_automated_sound_instruments
[5] Massimo Banzi, Getting started with Arduino, Sebastopol, O’Reilly, 2009.
[6] Bruno Munari, Codice ovvio, Torino, Einaudi, 1971.
[7] Andrea Valle, Making Acoustic Computer Music: The Rumentarium project, Organised Sound, 18:3, 2013, pp. 242-254.
[8] Il progetto più di rilievo in termini di complessità è il ciclo Systema naturae, composto insieme a Mauro Lanza. Alcuni aspetti, soprattutto di natura organologica e in relazione alla condivisione del lavoro, sono descritti qui: Andrea Valle e Mauro Lanza, Systema Naturae: shared practices between physical computing and algorithmic composition, Proceedings of the 14th Sound and Music Computing Conference, 2017, pp. 391-398.
img © Andrea Valle
*Andrea Valle è professore associato presso il DAMS di Torino dove e insegna programmazione audio e semiotica dei media. Laureato in Scienze della comunicazione presso l’Università di Torino, ha conseguito il Dottorato di ricerca in Semiotica presso la scuola superiore di studi umanistici di Bologna. È membro fondatore del CIRMA, Centro Interdipartimentale di Ricerca sulla Multimedialità e l’Audiovisivo, dell’Università di Torino. Ha partecipato al progetto europeo VEP (Virtual Electronic Poem), che ha ricostruito in realtà virtuale il Padiglione Philips. È membro del Consiglio direttivo dell’AIMI (Associazione di Informatica Musicale Italiana). Oltre pubblicazioni scientifiche internazionali, è autore di Audio e multimedia (con V. Lombardo, 4° ed. 2014) e Introduzione a SuperCollider (2015, ed. inglese 2017). Ha studiato composizione musicale con Alessandro Ruo Rui, Azio Corghi, Marco Stroppa, Trevor Wishart. Bassista elettrico, il suo lavoro come compositore è principalmente centrato su metodologie algoritmiche, indifferentemente in ambito elettro-acustico e strumentale. Dal 2008 lavora estensivamente nell’ambito del physical computing, sviluppando ensemble controllati dal calcolatore che includono tipicamente oggetti di uso comune e di recupero. Tra i suoi lavori, installazioni multimediali, musica da film, e teatro. Collabora regolarmente con Marcel·lí Antunez Roca (Cotrone, 2010; Pseudo, 2012; Ultraorbism, 2015; Alsaxy, 2015). Dal 2013 in associazione con Mauro Lanza ha composto il ciclo Systema Naturae, per strumenti acustici e dispositivi elettromeccanici.
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