di Johann Merrich*
Attribuire un’opera al regno dell’installazione sonora è un’operazione rischiosa; come afferma Giacomo Albert nel saggio Rapporti tra opera e fruitore nelle origini dell’installazione sonora (1900 – 1966), “l’installazione è un genere complesso, che contraddice la suddivisione lessinghiana tra arti spaziali e temporali: è arte spaziale e simultanea, dal momento che è prodotto della composizione di uno spazio, ma è altresì temporale, dal momento che questo spazio è da intendersi anche come situazione, che agisce in maniera temporale”. Per quanto quasi ogni saggio sul tema citi quale origine del genere Drive-in Music (1967) di Max Neuhaus, è al Giappone degli anni Cinquanta che si dovrà rivolgere la ricerca della prima installazione sonora i cui “confini formali siano compatibili con qualsivoglia teorizzazione del genere”. Come anticipato nel mio precedente contributo dedicato alla storia della sperimentazione musicale giapponese, l’evoluzione dell’arte contemporanea del Sol levante è stata uno dei molteplici veicoli dello sviluppo dell’arte elettronica ed è proprio nell’ambito delle “arti visive” – o meglio, del loro superamento – che fu concepita la prima installazione sonora, Work: (Bell), opera di Atsuko Tanaka (1932 – 2005) inaugurata nel 1955 a Tokyo in occasione della I Esposizione Gutai.
Nel decennio successivo al secondo conflitto mondiale, l’arte figurativa giapponese si ritrovava frammentata in molteplici schegge in equilibrio tra tradizione e contaminazione extrainsulare; tra i diversi moti, le manifestazioni artistiche più estreme si contrapponevano alla scuola del Reportage che mescolava il Realismo Sociale e il Surrealismo per raccontare senza idealismi gli orrori della guerra, il militarismo e alla corruzione postbellica. Le nuove forme d’arte, come quelle espresse dal gruppo Gutai, erano incomprese dai più e considerate meri esercizi modernisti di art pour l’art. I progetti tesi al superamento del concetto di pittura attraverso l’esplorazione di spazio, tempo e suono erano di rado intesi dal pubblico nel loro significato politico: lungi dall’essere ostentazioni di stravaganza, gesti folli e originalità rappresentavano la volontà di definire l’individualità, un fattore di estrema importanza in una società che era stata a lungo dominata dalla psicologia delle masse.
Atsuko Tanaka confluisce nel gruppo Gutai nel 1955 assieme agli altri componenti del gruppo Zero-Kai a cui si era unita nel 1953. Sin dalle sue prime creazioni, Tanaka rifiuta la scuola del Reportage decidendo di includere l’oggettivo direttamente nelle sue opere, favorendo l’assorbimento diretto del quotidiano nel suo lavoro; Work: (Bell), è esemplare di questa attitudine, dimostrando l’interesse di Tanaka verso le cose di ogni giorno e la rapida proliferazione della tecnologia. Work: (Bell) consiste di venti campanelli elettrici distribuiti attraverso il primo e il secondo piano dello spazio espositivo e connessi a un solo interruttore; ai visitatori dell’installazione è consegnato un biglietto: “Per favore, sentitevi liberi di premere il pulsante, Atsuko Tanaka”. Obbedendo all’ordine, il meccanismo veniva attivato; come spiegò Tanaka:
“The bells will be turned on in sequence, regulated automatically by a motor, to ring one by one, the closest ones ringing loud and the farthest ones heard only faintly. It was my intention to create an acoustic composition with the differing loudness of the bell sounds”.
Sin dalla prima metà del Novecento alcuni artisti si erano cimentati nella creazione di forme primitive di installazione sonora – come la Partiturskizze zu einer mechanischen Exzentrik (1925) di László Moholy-Nagy o l’ambiente principale dell’Exposition Internationale du Surréalisme (1938) a cura di Marcel Duchamp e Man Ray – ma nessuna di queste contemplava tutti gli elementi necessari per rientrare a pieno titolo nella categoria delle installazioni. In Work: (Bell) il mezzo sonoro è l’essenza dell’opera, non un compendio o un elemento secondario, così come è decisiva la volontà dell’autore di realizzare una composizione sonora. L’opera è interattiva poiché la sequenza di campanelli è attivata da un atto cosciente del fruitore che è pienamente consapevole del suo ruolo all’interno dell’opera stessa: senza il suo intervento, senza il suo ascolto, l’opera semplicemente non esiste. Esposta nello stesso anno in altre tre mostre sperimentali d’arte in Giappone, a Kobe, Osaka e Kyoto, la forma di Work: (Bell) cambia adattandosi all’ambiente, alle diverse sedi espositive e alle dimensione delle stanze in cui è inclusa. Vi è poi la riqualificazione del valore di un suono d’ogni giorno, quello del campanello, che trasfigura il suo significato mondano di avviso/allarme nella dimensione del puro godimento estetico, scardinando il confine tra la bellezza delle cose ordinarie, l’arte e la vita. Ecco perché Work: (Bell) è da considerare come “un unicum nel panorama artistico dell’anno 1955”, una vera e propria rivoluzione nella concezione multimediale dell’opera d’arte in cui la composizione musicale si svincola dal controllo dell’autore formale favorendo l’ascolto del mondo.
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img © Eeviac
* Organizzatrice di suoni, Johann Merrich si occupa di ricerca e sperimentazione elettronica. I suoi progetti in solo ed ensemble – presentati a Santarcangelo Festival (2018) e alla Biennale D’Arte di Venezia (Padiglione Francia, 2017) – sono stati accolti come opening da artisti quali Zu, Teho Teardo, Mouse on Mars, Roedelius ed Evan Parker. Direttore artistico della netlabel electronicgirls, dal 2018 fa parte assieme a eeviac de L’Impero della Luce, duo dedicato alle sonorità dei campi elettromagnetici. Nel 2019 ha pubblicato per Arcana Edizioni il libro “Breve storia della musica elettronica e delle sue protagoniste”. A partire dal mese di maggio 2019, propone per musicaelettronica.it una nuova visione della storia della musica elettronica.
https://soundcloud.com/johann-merrich
http://johannmerrichmusic.wordpress.com/
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