Brevi storie di musica elettronica #2 | Una musica perfettamente commestibile: fotografia di Teresa Rampazzi

di Johann Merrich*

[Pubblichiamo il secondo contributo di «Quattro “Brevi storie” per conoscere l’operato di alcune compositrici che hanno contribuito a disegnare il panorama elettronico italiano del secondo dopoguerra. Curiosità in pillole per ricordarci che è nostro compito ricostruire e tramandare le storie secondo un punto di vista critico, paritario e universale» (Johann Merrich)]

È difficile condensare la vita di Teresa Rampazzi in novecento parole: sarebbe come provare a mettere in un sacchetto un bel tramonto. Compositrice mai abbastanza ricordata, Rampazzi è un tassello fondamentale della ricerca elettronica. Seguendo il filo della sua carriera la vediamo agitare la vita musicale padovana dagli anni Cinquanta, fondare il gruppo Nuove Proposte Sonore, far nascere il primo corso di musica elettronica al conservatorio di Padova, contribuire alla genesi del Centro di Sonologia Computazionale e incidere pionieristici esperimenti impiegando svariate tecnologie, dai nastri magnetici ai sintetizzatori, senza tralasciare i linguaggi della computer music. Per la sua biografia rimando ai molti contributi a lei dedicati da Laura Zattra, come l’accurata nota del dizionario biografico degli italiani, la tesi Da Teresa Rampazzi al Centro di Sonologia Computazionale o il sito teresarampazzi.it. Racconta Zattra:

“(…) Teresa Rampazzi è stata una donna impegnata nel mondo delle avanguardie musicali più spinte (e già chi suonava questa musica non era visto spesso di buon occhio), era nata in una famiglia benestante di Vicenza, era sposata con figli. Di certo non era la classica figura di donna angelo del focolare. E come donna, musicista e compositrice veniva o amata o tollerata, perché aveva un carattere forte che non chiedeva compromessi. Ennio Chiggio sottolinea più volte questo suo lato. Aveva slanci, entusiasmi, ma anche posizioni forti, che misero spesso in crisi “gli uomini” che la circondavano. Pietro Grossi, oltre a Chiggio, fu un collega con cui ebbe un’affinità profonda. Ma tra le persone che ho intervistato ho trovato anche atteggiamenti più sospettosi, soprattutto nei confronti dell’atteggiamento – potremmo dire – utilitaristico che la Rampazzi aveva verso la tecnologia. Teresa usava infatti la tecnologia per i suoi scopi prima di tutto artistici, non perché idolatrava gli strumenti elettronici. Non era come i musicisti che vogliono che lo strumento si senta sempre, voleva piuttosto studiare lo strumento al fine di ottenere suoni interessanti. Non era il tipo da imparare perfettamente il funzionamento di uno strumento prima di mettersi a fare musica. Aveva capito, come molti musicisti di musica elettronica, l’importanza del ruolo degli assistenti musicali, che permettono di bypassare la conoscenza tecnicistica delle macchine, e lasciano al compositore la libertà di considerare lo strumento elettronico come uno strumento al pari di qualsiasi altro strumento dell’orchestra. Ma siccome Teresa era una donna, molti tra i sospettosi hanno spesso interpretato questo approccio di Teresa alla tecnologia con il classico: “era una donna pertanto non capiva niente di tecnologia”.

Per riassumere il pensiero di Rampazzi ho preferito riportare qualche estratto dai suoi scritti, organizzati da Paolo Zavagna in “Musica/Tecnologia” (2007, Firenze University Press).

“Con i mezzi elettronici il campo dell’esplorazione sonora si è così ampliato da non aver limiti che nelle soglie di udibilità. Possiamo dire a grandi linee che dal tetracordo greco siamo passati all’esacordo medioevale, dall’ottava del sistema temperato con i suoi gradi ben gerarchizzati, ai dodici semitoni del sistema dodecafonico equidistanti tra loro, così come dall’omofonia gregoriana siamo passati alla polifonia rinascimentale, da questa alla musica strumentale, ed ora, dagli strumenti di natura meccanica alle apparecchiature elettroniche. Ad ogni passo il vecchio sistema ha opposto resistenza. Ogni volta è sembrata la fine di tutto e non invece l’inizio, su basi necessariamente sperimentali, alla ricerca di nuove codificazioni. Anche se già Varèse teme a questo punto che qualche «becchino musicale incomincerà a imbalsamare in regole la musica elettronica ancora libera da codificazioni estetiche». Fortunatamente ne siamo ancora lontani. Ora non è più questione di scale, d’intervalli, di rapporti seriali; siamo giusto arrivati a quello che nel 1916 sognava Busoni: «la musica libera che non è legata alla schiavitù delle scale, degli intervalli, del ritmo, dell’armonia, ma nella quale i suoni sgorgano scivolano volteggiano come uccelli nell’aria, e i cambiamenti di altezza e intensità possono svolgersi dolcemente e gradatamente come nella natura»”.

Consapevole di quanta strada si dovesse ancora percorrere per una piena accettazione del nuovo mondo sonoro, scriveva nel 1970:

“Se gli presento un bel fascio di frequenze ben calcolate che a me par meraviglioso così da solo, mi dicono: è un rumore infame (le loro orecchie sono saturate da tanti segnali accatastati); se gli presento una sola frequenza, una purissima sinusoide oscillografo alla mano, mi dicono: ma questo è un fischio. (…) Col tempo ho capito che, nella maggioranza dei casi, far ascoltare musica elettronica era come invitare gli amici a stendersi sui chiodi. Perdevi l’amicizia”.

Il pensiero di Rampazzi, forse, non è mai stato così contemporaneo:

“Le cose non sono per niente migliorate col tempo, anche se improvvisamente può capitare d’incontrare un tizio che ti racconta come passa le sere: le passa a registrare i grilli e le formiche; poi gioca sulla velocità, manipola in qualche modo, e arriva a scoprire che il canto dei grilli è composto da 4 impulsi ogni tot secondi. (L’esperimento con le formiche è ancora in corso). Lui fa tutt’altro mestiere, ma direi che questo è già un modo corretto di ascoltare, come si dice… le voci della natura. Domani ci metterà il cigolio della porta, o la solita goccia che cade nel secchio, mescolerà i segnali e ne uscirà qualcosa di assolutamente diverso dalla ‘Goccia’ di Chopin o dal Volo del calabrone di Rimski-Korsakov. Farà cose che altri hanno già fatto molto meglio, ma lui non lo sa. Queste cose sono nell’aria e si diffondono: un registratore è davvero da adoperare come una macchina da presa; invece, per molti, è come una radio da ascoltare nella più stupida inerzia. Una volta pensavo: bisogna educare l’orecchio. Illusione. È vero che non si educa l’orecchio somministrandogli i suoni o rumori elettronici a gocce come una medicina pericolosa. Il paziente pensa che, finita la malattia, basta anche con le gocce. E rifiuta d’ingoiare addirittura sorsate di una roba così poco piacevole, quando sul mercato trova oceani di musica piacevolissima in cui immergersi senza far tanta fatica”

img © Eeviac

Organizzatrice di suoni, Johann Merrich si occupa di ricerca e sperimentazione elettronica. I suoi progetti in solo ed ensemble – presentati a Santarcangelo Festival (2018) e alla Biennale D’Arte di Venezia (Padiglione Francia, 2017) – sono stati accolti come opening da artisti quali Zu, Teho Teardo, Mouse on Mars, Roedelius ed Evan Parker. Direttore artistico della netlabel electronicgirls, dal 2018  fa parte assieme a eeviac de L’Impero della Luce, duo dedicato alle sonorità dei campi elettromagnetici. Nel 2019 ha pubblicato per Arcana Edizioni il libro “Breve storia della musica elettronica e delle sue protagoniste”. A partire dal mese di maggio 2019, proporrà per musicaelettronica.it una nuova visione della storia della musica elettronica.

https://soundcloud.com/johann-merrich
http://johannmerrichmusic.wordpress.com/

Brevi storie di musica elettronica #2 | Una musica perfettamente commestibile: fotografia di Teresa Rampazzi ultima modifica: 2019-07-12T09:55:25+02:00 da Luisa Santacesaria

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