Non esiste città italiana oggi con una vitalità musicale pari a Bologna, soprattutto per quanto riguarda l’underground della sperimentazione, della ricerca sonora, dell’elettronica, insomma di tutte quelle espressioni che escono dai canoni del tradizionale. Non c’è periodo dell’anno (ma direi anche del singolo mese) senza eventi, piccoli festival, iniziative e luoghi abitati da suoni di tutti i tipi, talvolta anche in antipatica sovrapposizione. Nessuno può affermare il contrario, provare per credere.
Questo clima tutto particolare suggerisce due riflessioni parallele. La prima è destinata ai giovani musicisti che si affacciano e frequentano regolarmente la scena bolognese: certamente è bello, rassicurante e formativo far parte attivamente dell’underground, godere delle sue opulente opportunità di sviluppo relazionale, suonare o ascoltare ogni sera musica nuova, buona o meno poco importa. Ma è altrettanto importante provare ogni tanto a tagliare la pellicola protettiva e sbucare in nuove finestre e nuovi ambienti, quelli per esempio delle realtà cittadine della cultura “di superficie”, certamente più pericolose, rischiose e astringenti per natura, ma anche probabilmente più consapevolmente profonde e foriere di soddisfazioni, di maggior prestigio e di sviluppo internazionale. Per ascoltare, per imparare e anche per provare a creare fuori dal proprio garage.
Ed eccoci dunque alla seconda riflessione. Qual è in tutto questo il ruolo dei soggetti della musica istituzionale? Non dovrebbe esserci tra le loro vocazioni anche quella di fare da incubatori di questo fertile terreno? Di dare spazio, tempo, risorse all’emersione di realtà espressive territoriali per far crescere la comunità con un sano confronto culturale ed un opportuno ricambio generazionale, anche dell’underground? Non mi pare proprio sia così ed è completamente inutile immaginare denominazioni improbabili e fantasiose se poi non si pratica la quotidianità del rischio, dell’esplorazione notturna, della scelta, delle relazioni serie e paritetiche e ci si rintana in “politicamente corretti” circuiti autoreferenziali o nel proprio orto dorato di un città in cui vivaddio i soldi per la cultura sembrano esserci. Penso di poter affermare che in questo scenario l’istituzione bolognese con cui collaboro abbia fatto la sua parte: non me ne vogliano i lettori per un tocco di immodestia, ma il Conservatorio di Musica, nelle sue declinazioni più avanzate, ha contribuito negli ultimi dieci anni a disseminare la città di menti aperte, a creare musicisti elettronici “sotterranei” consapevoli e in fin dei conti ad offrire a tanti di loro l’opportunità di importanti relazioni extra-cittadine e spesso anche extra-nazionali. Accademia oggi significa questo: profondità, pratica, apertura, rete di relazioni. Con buona pace di chi è ancora prigioniero di obsoleti schemi ideologici del passato che gli impediscono di “ascoltare” lo stupendo sound di Bologna.
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